Interni / Intervista
Antonio De Rossi. La riconquista delle aree interne
Considerate per troppo tempo dei luoghi arretrati, le aree interne stanno emergendo. Occorre puntare sui desideri delle comunità, spiega il curatore del volume “Riabitare l’Italia”
“Per la prima volta nella storia dello Stato unitario, le aree interne del Paese, che sono gli Appennini, le Alpi e le pianure rurali profonde, vengono viste come un’opportunità, e non solo come i luoghi arretrati del Paese”. È un ribaltamento di sguardo e di senso, quello di cui parla Antonio De Rossi, professore di Progettazione architettonica e urbana e direttore dell’Istituto di Architettura Montana al Politecnico di Torino e curatore del libro “Riabitare l’Italia” (Donzelli, 2018, 590 pagine, 44 euro). Un saggio a più mani, le cui conclusioni sono affidate a Fabrizio Barca, che da ministro per la Coesione territoriale avviò nel 2013 la Strategia Nazionale Aree Interne, contribuendo a far emergere un tema che tocca quasi il 60% del territorio nazionale, e coinvolge 13,26 milioni di abitanti, il 22% del totale (2017).
Il sottotitolo parla di abbandoni e riconquiste. Che cosa avete visto?
ADR Siamo di fronte a un cambiamento nella percezione collettiva, che forse non si è ancora manifestato pienamente, anche se le tendenze sono rilevanti. Si torna ad attribuire alle aree interne un valore economico, ad interrogarsi sulle opportunità che possono offrire territori considerati “residuali” rispetto ai processi di modernizzazione, o all’urbanizzazione delle grandi masse dal Sud a partire dagli anni Sessanta.
Oggi, di fronte alla trasformazione del quadro complessivo, alla crisi che interessa anche le periferie urbane, a un Paese che attraversa una ristrutturazione di carattere sociale ed economico, c’è la possibilità di riabitare realmente le aree interne, creando lavoro e garantendo l’accesso ai servizi, attribuendo senso e valore al margine e a ciò che offre. Riconquiste di fronte all’abbandono, che resta in ogni caso un tema centrale. Si può tornare a parlare di agricoltura di qualità e montagna, ad esempio. È fondamentale leggere la mutazione di senso sulle aree interne in rapporto a quanto sta avvenendo nel complesso. Per troppo tempo le aree interne sono state trattate come un recinto a sé stante, mentre sono un tema di carattere relazionale.
Le aree interne che raccontate sono spazi d’innovazione.
ADR Nel suo saggio Domenico Cersosimo (ordinario di Economia applicata all’Università della Calabria, ndr) analizza l’Italia dei vuoti e quella dei pieni, misurando tra le altre variabili anche la densità d’impresa nei territori delle aree interne. Dimostra come le grandi scelte delle imprese capitalistiche, delle multinazionali, non siano necessariamente in sintonia con questo processo di ricostruzione. Dobbiamo a mio avviso evitare una retorica, come quella che ha accompagnato negli anni Novanta il dibattito sulla competizione internazionale della città: la qualità ambientale non è un fattore importante nelle scelte localizzative dei capitali internazionali, perciò la via da tracciare deve essere completamente un’altra.
Appare molto interessante il tentativo di costruzione di altre economie, che sta nella capacità di bricolage, di valorizzare le risorse territoriali, materiali ed immateriali, mischiando il patrimonio storico e l’innovazione sociale, di innovare anche in ambito culturale o agricolo. È interessante la natura integrata e intrecciata di queste sperimentazioni, la loro valenza metodologica in ambito economico, sociale e culturale: quasi si trattasse delle tre gambe di uno stesso sgabello. Esemplificano questo tema le cooperative di comunità, che tengono insieme imprenditorialità, ridefinizione di modelli di welfare e modalità autorganizzative, e che nascono da un profondo intreccio di bisogni ma anche di proiezione di desideri. Come ha capito la Strategia Nazionale Aree Interne, non si può progettare solo in funzione dei bisogni, perché questo è un modo che rischia di mettere in evidenza solo le valenze regressive dei territori locali. Bisogna puntare sui desideri della comunità, e lasciare libertà agli attori, agli innovatori. Affinché si possa garantire “il pieno sviluppo della persona umana”, come da comma 2 dell’articolo 3 della Costituzione, di leliobassiana memoria.
“Come ha capito la Strategia Nazionale Aree Interne, non si può progettare solo in funzione dei bisogni, perché questo rischia di mettere in evidenza solo le valenze regressive dei territori locali”
La politica si è accorta della specificità di questi luoghi, definiti “places that don’t matter”?
ADR Il pensiero di progresso ha continuato ad agire con una visione dicomotomica, per cui i luoghi dello sviluppo erano i tessuti urbani e le metropoli. A me sembra che continui a mancare, tutt’ora, come vediamo anche dagli esiti elettorali, la capacità di costruire un pensiero positivo per questi territori, non solo rispetto ai bisogni. Manca la costruzione di un pensiero positivo, che riesca a tenere insieme le questioni dello sviluppo e dell’innovazione sociale e culturale, declinati sulle caratteristiche territoriali. Ci sono risorse e potenzialità che devono essere riprocessate, anche da politiche pubbliche adeguate. Questo libro è un tentativo di muovere dal margine per costruire una nuova visione place based.
La riforma costituzionale sul numero dei parlamentari ridurrà la già esigua rappresentanza delle aree interne. È un problema?
ADR Ogni vallata importante riusciva a portare il proprio rappresentante alla Camera o al Senato, che funzionava tradizionalmente come mediatore tra politiche nazionali e singoli territori. Questa cosa oggi non si dà più. È un tema molto percepito a livello locale, uno di quei motivi che scatenano la “vendetta elettorale” dei luoghi che non sono considerati. Poter aspirare ad avere delle rappresentanze politiche, sebbene di tipo tradizionale, resta per le comunità delle aree interne un tema fondamentale: questi mediatori politico-culturali riuscivano a portare risorse, politiche, progettualità.
C’è però un elemento di novità, nelle esperienze più interessanti: una sorta di autorganizzazione dei territori, delle piccole amministrazioni, per ripensare i servizi a livello locale. Insieme a nuove forze imprenditoriali e ai cittadini si costruiscono risposte. Questo è molto interessante, perché fa vedere come la rarefazione – che è fisica, economica e sociale – non sia sempre e solo un elemento di negatività. A fronte di situazione bloccate, come quelle che vediamo nelle aree metropolitane, questo permette anche di costruire politiche auto-organizzate, come dimostrano quei paesi alpini che si stanno riconfigurando pensano alla struttura dei servizi di welfare in maniera endogena. Lo ha fatto ad esempi Ostana (CN), dove il ripopolamento del paese nasce perché l’amministrazione insieme a competenze esterne ha saputo costruire una rete di strutture di welfare.
Uno dei saggi è dedicato ai migranti. Sono potenziali riabitanti?
ADR Non deve scattare un automatismo mentale: riempiamo con gli immigrati i vuoti che non sono riempiti dagli italiani. Il tema centrale è come affrontare l’emigrazione straniera, che non è un processo di sostituzione, ma l’esigenza di garantire una vita adeguata e nuove forme di comunità meticce, legami tra vecchi e nuovi abitanti, che sono gli stranieri ma anche giovani ad alto livello di scolarizzazione che arrivano dalle città e dalle pianure.
Il tema non è quello dell’ospitalità, quindi, né della solidarietà (temi assolutamente fondamentali), ma la costruzione di nuove e inedite condizioni di abitabilità dei territori interni. A me lasciano perplesse le proposte di portare pensionati stranieri in borgate disabitate, o di sfruttare i migranti come se si trattasse di truppe su uno scacchiere di battaglia.
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