Economia / Opinioni
L’euro non è un freno alle esportazioni italiane ed europee
Nel nostro Paese la moneta comune non ha frenato l’export, che al contrario registra una tendenza in crescita dal 1980 con una bilancia commerciale quasi sempre in attivo. “Le vecchie monete nazionali, assai più deboli e instabili, avrebbero forse permesso maggiori vendite all’estero, ma sarebbe aumentato anche il prezzo delle importazioni”. L’analisi di Alessandro Volpi
Qualche numero può servire a comprendere perché il problema dell’Italia non sono né l’Europa né, tantomeno, l’euro. Spesso si sostiene che il fatto di disporre di una moneta troppo forte, come l’euro, appunto, avrebbe danneggiato le esportazioni italiane. Se esaminiamo i dati, appare evidente che si tratta di un’affermazione sbagliata. L’Italia esporta ogni anno per poco meno di 500 miliardi di euro, registrando una tendenza in significativa crescita a partire dal 1980, con una bilancia commerciale quasi sempre in attivo da quella stessa data; nel 2017 l’avanzo commerciale ha raggiunto i 40 miliardi. Nel 2018 le esportazioni sono cresciute meno, ma hanno comunque registrato un incremento dell’1,9%, a fronte di un aumento dei consumi interni dello 0,6%.
Più in generale tutta l’Europa, dotata di euro, ha conosciuto dal 2010 uno sbalorditivo balzo in avanti delle proprie esportazioni, passando da un saldo vicino allo zero ad uno attivo compreso fra i 300 e i 400 miliardi di euro. Se i vari Paesi, Italia in primis, avessero dovuto fare affidamento sulle loro vecchie monete nazionali, assai più deboli e instabili dell’euro, forse avrebbero venduto di più, ma al contempo avrebbero pagato molto di più le importazioni, necessarie per un Paese trasformatore come l’Italia, e dunque avrebbero avuto una bilancia commerciale assai peggiore. Proprio la stabilità e il valore dell’euro sono stati poi la garanzia primaria della tenuta dei patrimoni e dei risparmi degli italiani. Anche qui i numeri sono molto importanti. La ricchezza degli italiani è pari a 10.500 miliardi di euro, di cui circa 4.300 miliardi sono costituiti da ricchezza finanziaria e il resto da patrimonio immobiliare, rimasto in gran parte estraneo alle bolle speculative che hanno colpito altri mercati.
Dei 4.300 miliardi di ricchezza finanziaria, ben 1.300 sono in conti correnti, di fatto “parcheggiati” in attesa di impiego che le incertezze della politica nazionale, e non certo quelle dell’Europa, rendono più complesso. Dal 2005 questa ricchezza ha accresciuto il proprio peso sul totale, salendo dal 23% al 32% attuale, e sulla base dei dati forniti dall’Abi tra il 2017 e il 2018 risulta che i depositi della clientela residente sono saliti di 32 miliardi di euro. Anche le imprese italiane hanno aumentato la quota di risorse immobilizzate in titoli immediatamente convertibili e in contante raggiungendo i 240 miliardi di euro nel 2018, la cifra più alta degli ultimi vent’anni.
Dunque, in termini assoluti, l’euro ha tutt’altro che impoverito il Paese e soprattutto ha consentito un mantenimento di valore impensabile con una moneta nazionale debole. Applicare svalutazioni del 30% o del 40%, connesse a un’eventuale uscita dall’euro, costituirebbe una pesantissima “imposta” sul complesso di queste ricchezze, indispensabili per la tenuta del Paese.
Solo l’assenza di inflazione, inoltre, ha permesso un “parcheggio” di tale ricchezza senza che questa dovesse scontare tassi negativi troppo pesanti da determinare fughe di capitale. La moneta comune e l’appartenenza europea sono pertanto, sempre più, strumenti di garanzia per l’Italia, come per gli altri membri dell’eurozona che dovrebbero concentrarsi forse su altri temi, abbandonando la sterile questione dell’euro-exit.
Ci sono almeno tre questioni centrali infatti che dovrebbero essere affrontate con urgenza. La prima riguarda il macroscopico problema di redistribuzione della ricchezza e dei redditi in molti Paesi europei che non può certo essere affrontato con il binomio svalutazione-inflazione, come auspicato dai sovranisti. In Italia i lavoratori dipendenti in condizioni di povertà sono il 12,2% del totale, in Germania il 9,1%, il 13% in Spagna; è difficile immaginare una ripresa dei consumi, in grado di affiancarsi alle esportazioni, con salari così bassi. Le delocalizzazioni produttive possono alimentare l’export ma, come è sempre più chiaro, riducono in maniera ormai patologica la domanda interna.
Appare poi sempre più evidente che ormai la crescita della produttività è molto difficile -in Italia in particolare- e ciò dipende dal fatto che a farla crescere, almeno da vent’anni, non basta più l’accelerazione del progresso tecnologico perché tale accelerazione contribuisce ulteriormente alla marginalizzazione del lavoro e alla polarizzazione della ricchezza. Maggiore produttività rischia di voler dire maggiore ricchezza per pochi.
Bisogna poi ricordare che l’Europa non funziona se gli Stati membri non sanno utilizzarla. Nel piano 2014-20, l’Unione europea ha stanziato per l’Italia 42,7 miliardi di euro, che uniti ai 39 miliardi di cofinanziamenti nazionali, significano una cospicua dote di 73,6 miliardi di euro di fondi strutturali. In questo senso, l’Italia risulta dopo la Polonia la principale beneficiata da Bruxelles. Tuttavia di tale cifre, il nostro paese ha speso solo il 3%. Lasciamo perdere l’euro e parliamo di cose serie.
Università di Pisa
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