L’economia è cura. E prendersi cura, di sé e degli altri, è il primo passo per un radicale cambio di prospettiva: la reciprocità e la dipendenza consapevole dall’altro/a sono l’antidoto più sovversivo all’individualismo. Per una vita buona.
“Il passaggio da una società di mercato centrata sulla produzione di merci e sul profitto a una società di economia domestica, centrata sul bisogno e sulla libertà-in-relazione di tutti gli esseri umani, significa il cambio di paradigma decisivo della nostra epoca.”
Il libro “L’economia è cura” di Ina Praetorius è un invito a cambiare paradigma, a partecipare a una “care revolution” che costruisca un linguaggio e un’economia differenti, alla ricerca di una “felicità interna lorda” e di un sistema economico e sociale capace di soddisfare i bisogni di tutti, senza discriminazioni.
Scrive nella postfazione il filosofo Roberto Mancini: “quando Praetorius afferma che l’economia è cura non sta semplicemente proponendo un’altra economia, ci sta richiamando a vedere il senso del modo umano di stare al mondo”. Contro la logica del potere (maschile), Praetorius “ci fa riconoscere che esiste la coralità umana e dei viventi”. La bella traduzione e il saggio introduttivo sono della curatrice del volume, Adriana Maestro, responsabile del Centro Studi Mediterraneo Sociale e dell’associazione Rita Atria-Giancarlo Siani, a Napoli. L’appassionata prefazione è di Luisa Cavaliere. La Posfazione di Roberto Mancini. La copertina è dell’illustratrice turca Hülya Özdemir, instagram.com/huliaozdemir
Dalla prefazione di Luisa Cavaliere “Cura e noncuranza”
“Con il femminismo ho imparato che il prendersi cura di sé è il primo gesto per comprendere quanto sia necessario un radicale cambio di prospettiva per vivere e per vivere bene. Per fronteggiare un’esistenza che si definisce, definisce la sua essenza, attraverso la consapevolezza primaria della sua finitezza.
La necessità prioritaria della cura di sé e la consapevolezza della natura relazionale della soggettività sono le conquiste più significative del movimento delle donne. Certamente non inedite. A essere inedita, radicalmente inedita, rispetto al tanto che la riflessione maschile pure ha prodotto su questo tema, è l’esperienza che generò questa consapevolezza, il luogo che la rese possibile. I gruppi di autocoscienza sbrogliarono la matassa incandescente e indistinta del desiderio femminile di soggettività, di padronanza sul reale, di parole per dirsi, di ricchezza simbolica e scoprirono che la storia raccontata da ciascuna era storia di relazioni. Primarie, come quella con la madre e con la lingua che lei trasmetteva, ma anche sussidiarie, con le maestre, le madri simboliche, le sorelle. Con le altre. Da quella matassa emerse e si definì quanto la struttura relazionale della soggettività fosse la sua sostanza e che senza il sapere di essa non potevano avere origine, generarsi, né trascendenza, né vita consapevole, né pensiero di sé, né parola, né etica, né, meno che mai, cura.
Quella cura avvilita da una sottovalutazione che l’ha tenuta fuori dai grandi sistemi conoscitivi come attività minore adatta per questo alle donne, e che oggi, grazie alla riflessione del femminismo, si profila come possibile fonte di un sapere capace di rispondere con efficacia alle domande del presente. L’assumere le relazioni di cura come paradigma per un radicale cambiamento garantisce approdi ancora magmatici che delineano un orizzonte che non esorcizza né rimuove – e come potrebbe? – lo scacco che ci infligge la finitezza dell’esperienza umana. Se so, perché guardo il mondo, che niente posso fare per agire sul tempo dell’esistenza, so anche che per poter conservare la vita, riprodurla, renderla buona, devo misurarmi e imparare ad agire con la coscienza del limite. L’altro o l’altra, che ho di fronte e da cui dipendo, mi ricordano continuamente che sono essenziali alla cura che devo avere per me e mi fanno anche comprendere chi sono e fino a dove può arrivare la mia azione consapevole”.
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