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Interni / Intervista

Elena Pirani. La scuola che ci aspetta

Dalla riduzione della popolazione in età scolastica alla “migrazione” interna degli studenti universitari da Sud a Nord. Le sfide dell’istruzione del futuro alla luce delle previsioni Istat

Tratto da Altreconomia 213 — Marzo 2019

“Un libro piccolo, con tante figure, che usa un linguaggio non tecnico e tratta una materia di interesse per il futuro dei nostri figli e del Paese”. Comincia così il viaggio alla scoperta dell’istruzione in Italia contenuto nell’ultimo “Rapporto sulla popolazione”, voluto dall’Associazione italiana per gli studi di popolazione (AISP) e pubblicato nel 2019 da “Il Mulino”. I curatori Gustavo De Santis, Elena Pirani e Mariano Porcu -i primi due professori di Demografia all’Università di Firenze e il terzo professore di Statistica sociale all’Università di Cagliari- hanno confezionato un testo agile (170 pagine) che propone sotto gli occhi del lettore i nodi cruciali della scuola italiana: dalle risorse che il nostro Paese dedica all’istruzione (il 3,93% del PIL, decisamente meno della media OCSE, oltre il 5%) al “peso” dei laureati sui 30-34enni (27% della popolazione di riferimento, lontano dal 40% della media europea), dall’andamento della popolazione scolastica alla mobilità degli studenti universitari dal Sud al Nord del Paese nell’ultimo decennio, dal “rendimento scolastico” alla presenza di alunni stranieri nelle classi, dall’esodo dei laureati italiani (25mila solo nel 2016) alla densità scolastica dei territori. Fino all’ultimo, utilissimo, capitolo sulla “scuola come investimento” e sulla centralità dell’istruzione nel percorso di vita dei cittadini. La demografia fa costantemente da sfondo, ma quel che rende prezioso il volume è il fatto di non limitarsi “solo” a riportare le preoccupanti conseguenze degli scenari tracciati dall’Istat o dall’Eurostat quanto a indurre a interrogarsi sulle scelte più opportune da adottare. 

Un esempio su tutti è l’andamento della popolazione scolastica. “Secondo le previsioni Istat -si legge nel Rapporto- nel corso dei prossimi dieci anni la popolazione in età scolastica, tra i 3 e i 18 anni, si ridurrà sensibilmente da 9 a 8 milioni di ragazzi/studenti”. Il risultato “meno giovani” significa che nel 2028 l’Italia perderà 6.300 sezioni di scuola dell’infanzia, quasi 18mila classi di primaria, 9.400 di media e 3mila di superiori. “A regole vigenti -spiegano gli autori della ricerca- il calo della popolazione scolastica comporterà una contrazione degli organici dei docenti per un totale di oltre 55mila posti/cattedre in dieci anni”. Che fare? E qui viene in soccorso l’analisi delle proiezioni demografiche, come chiariscono De Santis, Pirani e Porcu. Che è decisiva non tanto per “scommettere sulla realizzazione di un determinato scenario futuro” ma piuttosto per “anticipare il cambiamento e consentire l’adozione delle contromisure più adeguate”. Elena Pirani le definisce “sfide per l’immediato futuro”.

Professoressa Pirani, a proposito dell’andamento della popolazione scolastica date conto di due scenari. Uno “con” e uno “senza” le migrazioni. Perché e che tipo di esiti prefigurate?
EP Come dimostrano i recenti indicatori demografici dell’Istat, la natalità in Italia è molto bassa. Nel 2018 si conteggiano 449mila nascite, ossia 9mila in meno del precedente minimo registrato nel 2017. Rispetto al 2008 risultano 128mila nati in meno. Questo si rifletterà inevitabilmente nei prossimi anni sulla popolazione in età scolare (6-18 anni), destinata infatti a calare: dai 7,4 milioni del 2017 si ridurrà al 2037 di circa 1 milione di unità. Nel 1982 erano 11,8 milioni. Se ci fosse una sorta di “chiusura” delle migrazioni nei prossimi decenni questa riduzione potrebbe aumentare addirittura a 2 milioni di unità. In ogni caso, prevedendo anche un apporto delle migrazioni, la popolazione in età scolare è destinata a ridursi e questo avrà delle conseguenze riguardo la programmazione scolastica. Le classi, elementari e oltre, sono destinate a contrarsi. Bisognerà cercare di capire se e come i docenti, di fronte a un numero minore di studenti, potranno essere reimpiegati. 

Ad esempio?
EP Il sovradimensionato del corpo docente potrebbe essere utilizzato per tenere le scuole aperte più a lungo, nel pomeriggio, aumentando il tempo pieno. Oppure nel periodo estivo -evitando quel blackout che penalizza soprattutto i ragazzi provenienti dalle famiglie meno abbienti- o incrementando il numero medio di insegnanti per classe. Insomma, le possibilità che si aprono sono diverse, l’importante è rendersi conto dei cambiamenti che si verificheranno nel prossimo futuro.

Nel libro fornite un’istantanea dettagliata anche della mobilità universitaria in Italia.
EP La tendenza dell’ultimo decennio è confermata, come già si sapeva la direzione è una sola: dal Mezzogiorno verso il Centro-Nord. Il che ha creato e crea ulteriori disuguaglianze e una perdita di capitale umano che non sembra rallentare. Nel libro pubblichiamo per la prima volta i micro-dati dell’Anagrafe nazionale degli studenti (ANS) che mostrano precisamente le direzioni e le intensità di due mobilità. Dalla scuola alla laurea triennale e dalla triennale alla magistrale. Le destinazioni degli studenti del Sud sembrano polarizzarsi verso Torino, Milano e Bologna. Negli ultimi 15 anni (dati SVIMEZ) sono emigrate dal Sud 1,7 milioni di persone. A fronte di 1 milione di rientri si traduce in una perdita netta di 716mila unità, per tre quarti giovani tra i 15 e i 34 anni e per un terzo laureati.

“La popolazione in età scolare è destinata a ridursi. Le classi, elementari e oltre, sono destinate a contrarsi. Bisognerà cercare di capire se e come i docenti, di fronte a un numero minore di studenti, potranno essere reimpiegati”

Per questo parlate di “fuga dal Sud”?
EP Sì e di una perdita di capitale umano del Mezzogiorno che il nostro Paese implicitamente sembra stimolare. Penso alla definizione di “migliori” per quegli atenei che permettono di trovare lavoro perché collocati in un contesto produttivo più favorevole. E quindi alla destinazione di maggiori risorse verso di loro. Una sorta di circolo vizioso che ha prodotto risultati evidenti: alcuni atenei del Sud e delle Isole subiscono perdite di iscritti molto consistenti, nell’ordine del 22% all’immatricolazione e del 35% nel passaggio alla magistrale. Con i casi di maggiore difficoltà in Calabria e Basilicata. 

Migrazioni interne all’Italia ma anche esterne. Qual è la situazione?
EP Negli ultimi 10 anni le immigrazioni verso l’Italia si sono ridotte del 43% mentre le emigrazioni sono triplicate. Il saldo migratorio netto con l’estero ammonta nel 2016 a circa 144mila unità (300mila iscrizioni, 157mila cancellazioni). Un terzo degli emigrati italiani nel 2016 possedeva la laurea. Si tratta di 25mila persone su cui il nostro Paese ha investito non poco: se il “costo” di un diplomato è pari a circa 90mila euro, quello di un laureato oscilla intorno a 165mila euro. Una tendenza che dovrebbe forse allarmare più degli arrivi di stranieri nel nostro Paese. 

“La correlazione con il titolo di studio è positiva: mentre le persone poco istruite sono occupate solo raramente (33% o meno), tra i laureati le probabilità di occupazione sono invece elevate (75% circa)”

Il volume si chiude con il capitolo sulla “scuola come investimento”. Il luogo comune per il quale “studiare e laurearsi non serve a niente” ne esce malconcio.
EP Dalle analisi che abbiamo condotto risulta che l’istruzione acquisita non è solo associata a una maggiore retribuzione nell’arco della vita ma anche a una maggiore probabilità di occupazione. Considerando i tassi di occupazione per titolo di studio, registrati nell’arco del ventennio di analisi, si nota inoltre un trend crescente anche durante gli anni della crisi.
La correlazione con il titolo di studio è positiva: mentre le persone poco istruite (licenza elementare o meno) sono occupate solo raramente (33% o meno), tra i laureati le probabilità di occupazione sono invece elevate (75% circa). Dunque il “rendimento dell’istruzione” nel mercato del lavoro italiano è rimasto costante nonostante la crescente scolarizzazione, a differenza ad esempio degli Stati Uniti. E per quanto riguarda i differenziali di genere la crescente scolarizzazione si è associata a una riduzione dei divari, a favore della componente femminile.

I rendimenti economici sono solo una parte della questione, però.
EP Certamente, e nel libro lo chiariamo. Soldi e lavoro non sono tutto, ma anche loro, come il resto (salute, fecondità, partecipazione alla vita politica, coinvolgimento nel volontariato, etc), suggeriscono che studiare conviene, all’individuo e alla società”.

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