Interni
Latte macchiato
Il nostro Paese non ha mai "splafonato" le quote latte imposte dalla Commissione europea. Un "mero errore di natura contabile" ha gonfiato i numeri della produzione italiana, facendo scattare multe dall’Ue per oltre 2,5 miliardi di euro in dieci anni. A farne le spese, gli allevatori italiani, l’anello più debole di una filiera non equilibrata
Dalla sua nascita alla vigilia dei 30 anni, però, il sistema quote ha mostrato più di una criticità. A partire dagli inizi. Chi all’epoca trattò per conto del nostro Paese (il ministro dell’Agricoltura era Filippo Maria Pandolfi) non si accorse ad esempio che la cifra concordata con la Commissione (8,23 milioni di tonnellate di latte conferito ogni anno) era pesantemente al di sotto del regime produttivo italiano di oltre 12 punti percentuali. Vizio d’origine -costato all’erario 1,8 miliardi di euro- che caratterizzerà tutta la vicenda “quote”, giunta a una svolta in occasione della campagna lattiera del 1995/1996. Da quel momento, infatti, le responsabilità del superamento della quota nazionale (le multe) si spostano dalle spalle dell’erario direttamente a quelle dei produttori “eccedentari”, che violano la soglia fino all’annata 2008/2009, accumulando sanzioni per 2,6 miliardi di euro circa.
Il bilancio del sistema l’ha tracciato la Corte dei Conti che, nel dicembre 2012, ha dedicato al tema un’indagine specifica. “La confusione nella determinazione dell’esatta produzione di latte a livello nazionale per l’inattendibilità dei dati forniti dall’amministrazione e dalle categorie di produttori […] la persistente assenza di volontà politica nell’affrontare e risolvere il problema dei recuperi ed il lungo periodo di carenza dei controlli” sono costati all’Italia, secondo la Corte, oltre 4,4 miliardi di euro. Tradotto: gli allevatori “furbi”, violando le quote, avrebbero danneggiato il Paese. Un ritornello tanto conosciuto quanto "stonato".
Un clic che è valso almeno 2,6 miliardi di euro e che ha spinto il Gip Proto a restituire gli atti al pubblico ministero specificando che “se è vero che non può ipotizzarsi il reato di truffa non altrettanto può dirsi in ordine al reato di falso”. Ciò significa che il nostro Paese non ha un quadro esatto di quanto latte sia stato prodotto negli ultimi anni, risultando peraltro il Paese comunitario con la più ampia forbice tra quota assegnata e consumi interni: già nel 1997 la produzione copriva soltanto il 57% dei consumi, lasciando il restante 43% a latte di provenienza estera. Il tempo ha dato quindi ragione il Comando carabineri delle Politiche agricole e forestali coordinato dal tenente colonnello Marco Mantile, accusato al tempo della sua indagine (2010) dal ministero competente di aver determinato soltanto ritardi nei pagamenti delle rate.
Confusione che non è dunque colpa degli allevatori, che si sono visti contestare quantità mai prodotte a copertura probabilmente di un’ingente quota proveniente dall’estero, in nero, a prezzi stracciati e non sottoposta a vincoli qualitativi. “Le quote hanno avuto soltanto l’effetto di dividere il mondo agricolo”, riflette amaramente Paolo Cova, medico veterinario e deputato del Partito democratico -tra i pochissimi a sollevare il tema in aula-, mentre ci accompagna da alcuni allevatori delle province di Milano e Pavia, da Carpiano (Mi) a Landriano (Pv). C’è chi ha chiuso l’attività perché strangolato, chi ha comprato -fidandosi- le quote, chi le ha affittate, chi non le ha mai pagate perché insospettito ed è finito a processo (e domani farà ricorso). Un disastro che ha la forma delle 500mila vacche perse in Italia nel giro di 9 anni, perché non più mantenibili, di cui 60mila solo nella provincia di Lodi. E una beffa per gli allevatori, i quali, secondo Cova, “non hanno sostanzialmente avuto alcun beneficio dalle quote”. A partire dal prezzo, specie quello riconosciutogli dall’industria.