Non è compresa nell’agenda dell’epocale riforma della Giustizia assicurata dall’esecutivo. Eppure, l’introduzione del reato di tortura nel codice penale è in calendario dal 1988. Riprende in Senato la discussione su cinque proposte di legge. Le abbiamo lette, confrontandone i contenuti (aggiornato al 3 luglio)
Il reato di tortura torna in Parlamento. Appuntamento fissato a martedì 2 luglio, davanti alla seconda commissione permanente del Senato (giustizia), presieduta da Nitto Palma. L’ordine del giorno prevede l’esame congiunto delle tre proposte di legge giunte al tavolo a partire dall’aprile di quest’anno. Ciò a conferma del riavvio dell’iter interrotto a fine 2012, dopo il difficile accordo raggiunto all’unanimità su un testo che fu poi fatto naufragare dai banchi Pdl-Lega Nord.
I tre disegni di legge (362, 388, 395) recano rispettivamente come primi firmatari i senatori Casson (Partito democratico), Barani (Grandi Autonomie e Libertà) e De Petris (Gruppo misto, Sinistra ecologia e libertà). Comunicati alla presidenza tra il 2 e l’8 aprile, condividono, dal punto di vista degli auspici indicati in premessa, l’obiettivo di sanare una lacuna tristemente nota. E cioè che, almeno a partire dal 1988 -data della ratifica italiana della Convenzione Onu contro la tortura approvata in plenaria a New York il 10 dicembre 1984-, il nostro Paese è consapevolmente inadempiente rispetto a un preciso obbligo internazionale.
La legge di iniziativa popolare e il rischio che la tortura finisca in prescrizione
Se le istituzioni sono rimaste immobili, nonostante i clamorosi precedenti rimasti orfani del reato (le violenze nella scuola Diaz di Genova o nella caserma di Bolzaneto all’epoca del G8 2001), è stata la società civile organizzata a muoversi, anche in questi giorni, per recuperare il tempo perduto. Lo strumento è la firma, a sostegno di una legge di iniziativa popolare predisposta da decine di associazioni (tra cui A buon diritto, Antigone, Cnca, Gruppo Abele, Naga, Libertà e Giustizia, Ristretti Orizzonti e tante altre). E l’articolo 1 del testo è centrale, non fosse altro perché frutto della traduzione dall’inglese dalla Convenzione Onu:
"Il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che infligge ad una persona, con qualsiasi atto, lesioni o sofferenze, fisiche o mentali, al fine di ottenere segnatamente da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o su di una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su ragioni di discriminazione, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni. La pena è aumentata se ne deriva una lesione personale. È raddoppiata se ne deriva la morte. Alla stessa pena soggiace il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che istiga altri alla commissione del fatto, o che si sottrae volontariamente all’impedimento del fatto, o che vi acconsente tacitamente".
Dunque sono tre le caratteristiche ritenute imprescindibili: l’autore (il pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio), il fatto (lesioni fisiche o psichiche inflitte), il fine (estorcere dichiarazioni, informazioni). Anche se dettato da logiche discriminatorie. Inoltre, oltre alla pena, è molto chiara la responsabilità prevista per chi spinge, facilita o copre chi tortura, spezzando (o cercare di farlo) la catena di omertà che abitualmente contraddistingue alcuni angoli bui di caserme, questure, piazze, camere di sicurezza, commissariati, carceri, centri di identificazione.
Non si comprende però il motivo per cui la clausola di salvaguardia chiamata "imprescrittibilità" sia saltata. Uno strumento, prima ancora che simbolico, di enorme rilevanza pratica, dati i tempi interminabili di un procedimento, che è poi la cifra caratterizzante del "sistema giustizia" italiano. Tanto che la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo ha più volte intimato al nostro Paese di non permettere "esiti prescrizionali" per condotte di simile gravità. In più, pensare di paragonare la pena massima prevista per uno spacciatore recidivo di modiche quantità di sostanza stupefacente (20 anni) con quella cui rischia di inciampare un torturatore lucido (10 anni, salvo correzioni per morte del torturato o tipologia di lesioni inflitte), dà conto della potenziale insufficienza delle pene.
Le tre proposte a Palazzo Madama a confronto
La proposta delle associazioni impegnate da tempo sul tema -identica a una Convenzione Onu ratificata dall’Italia- è stata integralmente ripresa (con il secondo articolo in materia di immunità diplomatica e estradizione) nel testo "De Petris", datato 8 aprile 2013. Identica anche la "collocazione" all’interno del codice penale: subito dopo l’articolo 608, "abuso di autorità contro arrestati o detenuti".
Il punto è che gli altri due, specie quello presentato dal magistrato Felice Casson e sottoscritto, tra gli altri, dai senatori Chiti, Pezzopane e Puppato, si discostano. E non di poco.
Partendo non dal testo "Casson" ma da quello "Barani", lo scostamento è minimo, anche se non irrilevante. Prima di tutto per quel che riguarda la posizione nel Codice penale: non più dopo l’articolo 608 ma dopo il 593, omissione di soccorso. Stando al contenuto invece, l’articolo 1 è identico al testo "associazioni-De Petris", eccetto un’aggiunta effettuata in calce al passaggio su chi "istiga" o si "sottrae volontariamente all’impedimento del fatto", stabilendo che "qualora il fatto costituisca oggetto di obbligo legale, l’autore non è punibile".
Un dettaglio "francamente incomprensibile", secondo Alessio Scandurra, dell’associazione Antigone. "L’obbligo legale è una scriminante di carattere generale, e non ne colgo il significato se riferita al reato di tortura". Peraltro, se per obbligo legale si dovesse intendere un ordine -ma non è stato possibile confrontarsi con l’autore della proposta (il senatore Barani)- vorrebbe dire riconoscere ordini "dall’alto" che concepiscano ipotetiche torture. Una contraddizione in termini costituzionali.
Il "testo Casson"
Per quel che riguarda il testo "Casson", al contrario, le differenze sono rilevanti per numero e merito. In primo luogo, l’articolo del codice che si è scelto di "integrare" è il 613, stato di incapacità procurato mediante violenza. Scorrendo il primo articolo l’autore del reato cambia, espandendosi. Il "pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio" diviene "chiunque". Il "qualsiasi atto" che fa scattare la tortura, seguendo un percorso opposto rispetto a prima (e cioè complicandosi), diventa precise "sevizie o trattamenti disumani e degradanti". E quelle che la campagna "Tre leggi" chiama "lesioni o sofferenze, fisiche o mentali" mutano in "sofferenze fisiche o psichiche". Precedute da un aggettivo che potrebbe rivelarsi strategico -per la discrezionalità che introduce- nei processi: "acute". La vittima dovrà poi essere "privata della libertà personale" o "non in grado di ricevere aiuto". Tutto ciò contempla una pena che va dai tre ai dieci anni, che aumentano da quattro a dodici a titolo di aggravante nel caso in cui fosse un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio a commetterlo.
"Quello legato al preciso riferimento al pubblico ufficiale è un punto un po’ storico della battaglia per l’introduzione del reato di tortura", commenta Scandurra. "La dottrina internazionale concepisce la tortura legata proprio all’abuso del potere pubblico nei confronti del cittadino, e quindi ne individua rigorosamente l’autore, senza lasciare spazio al ‘chiunque’", conclude. "In ogni caso, il vero scandalo è che non ci sia ancora il reato e non che sia configurato in maniera più o meno corretta. È vergognoso che la maggioranza dei parlamentari italiani non abbia mai ritenuto utile sostenerlo, affossandolo puntualmente. Noi rimaniamo sulla nostra proposta -che ha raggiunto le 30mila sottoscrizioni-, ma se ne venissero adottate altre anche in parte diverse sarebbe comunque un enorme passo avanti".
La proposta del M5s
Oltre alle tre proposte calendarizzate in commissione giustizia del Senato, c’è anche il ddl a cura del "Movimento 5 Stelle", con primo firmatario il senatore Maurizio Buccarella. Al momento della pubblicazione, però, il testo definitivo della proposta non è ancora pubblicato, e non è stato possibile ottenere altre informazioni dagli autori del testo.
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Aggiornamento del 3 luglio
È stato pubblicato il quarto testo sul tema, il Ddl 849comunicato il 19 giugno e messo a punto dal "Movimento 5 Stelle", primo firmatario il senatore Maurizio Buccarella. In un’inedita convergenza, la proposta condivide molteplici passaggi con il "testo Casson". Oltre all’articolo del codice penale (il 613, stato di incapacità procurato mediante violenza), riprende infatti la caratteristica allargata dell’autore del delitto, "chiunque" e non specificamente il pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, per il quale è prevista una non definita "pena aumentata". Irreperibile è poi il fattore chiave "imprescrittibilità", come del resto i tre testi sopra analizzati. Nessun accenno a chi istiga o evita di impedire che la tortura si perfezioni.
Aprendo voragini interpretative, gli autori del quarto Ddl danno rilievo all’intensità dei comportamenti, che è in contrasto con quella parte della dottrina che ritiene il delitto di tortura difforme dalle lesioni, e perciò sganciato dalla durata o incidenza. Al contrario, secondo il M5s il soggetto colpevole di tortura, stando al testo Buccarella, sarà chi "
con violenza o minacce gravi, infligge a una persona forti sofferenze fisiche
o mentali ovvero trattamenti crudeli, disumani o degradanti".
La proposta Manconi
Nell’ordine del giorno della commisione giustizia del Senato è stata iscritta poi la discussione di un quinto disegno di legge (numero 10), questa volta a prima firma Luigi Manconi (Pd), che è poi presidente della commissione diritti umani di Palazzo Madama. Presidende di "A buon diritto", Manconi resta fermo sul pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio quale autore del delitto, riprendendo più degli altri il merito della legge di iniziativa popolare.