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I discorsi paralleli nel nuovo Stato del popolo

Oltre a quello, tradizionale, del Presidente della Repubblica, anche i leader del governo hanno voluto aprire il nuovo anno con i loro messaggi, didascalici e dagli spiccati toni emotivi. “Una sorta di democrazia diretta che non ha bisogno delle istituzioni paludate, ma vive nelle parole gridate dei leader”. Il commento di Alessandro Volpi

Il 31 dicembre il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha tenuto il consueto discorso di fine anno, misurato e accorato al tempo stesso, volto a far emergere l’Italia del buon esempio, della sicurezza combinata alla fiducia nel bene. Dieci milioni di spettatori e 2 milioni di condivisioni sui social network, un vero e proprio successo dei buoni sentimenti. Poco dopo, prima del brindisi di mezzanotte, da Bormio, Matteo Salvini postava su Facebook un video in cui dichiarava di fare proprie le parole appena pronunciate da Mattarella inverandole “col lavoro che ho già fatto e quello che farò nei prossimi mesi”. Al tempo stesso il ministro degli Interni rivendicava di aver consentito all’Italia di “riconquistare i suoi confini” e si dichiarava soddisfatto per l’imminente approvazione delle norme sulla legittima difesa; non proprio quello che aveva detto il presidente con il suo tono pacato e irenico.

In contemporanea con l’intervento a reti unificate di Mattarella, invece, Beppe Grillo (o meglio la sua testa posta su un inquietante corpo da culturista) pronunciava un surreale messaggio millenaristico al grido agghiacciante di “restiamo umani”, quasi un ossimoro rispetto ai toni apocalittici dell’intervento video.

Meno enfaticamente il primo gennaio Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, vestiti da sci, con alle spalle affollate piste innevate, formulavano il loro messaggio di inizio anno, proclamando di voler fare agli italiani il “regalo” della fine dei privilegi degli onorevoli. Dunque ha preso corpo, in un breve lasso di tempo, una scorpacciata di dichiarazioni, istituzionali e “non convenzionali” da parte di figure più o meno istituzionali, che costituiscono il paradigma del nuovo linguaggio politico italiano.

Esiste l’asettica e non politica presenza del capo dello Stato che assolve nei confronti delle convulse vicende parlamentari a funzioni di alto patrocinio, talvolta destinato ad apparire un mero esercizio notarile; un soggetto talmente terzo da rischiare l’irrilevanza e comunque la sostanziale incapacità di esercitare una tangibile azione sull’immaginario comune, ormai abituato a riconoscere solo le posizioni ben definite.

In maniera paradossale proprio l’elevato tasso di litigiosità della politica costringe il presidente della Repubblica a un ruolo sideralmente super partes, tanto da sterilizzarne qualsiasi reale prerogativa di incidere sulla politica nazionale e da relegarlo nella dimensione del “custode” di un patrimonio di valori incomprensibile per larga parte del popolo della rete.

In questo senso il discorso di fine anno corre il pericolo di essere davvero una sorta di augurio di un austero e vetusto pater familias, gradito perché rituale e innocuo come solo gli auguri riescono ad essere. Ben più incisivi risultano i già ricordati messaggi non convenzionali degli altri attori più o meno istituzionali che, dietro l’apparente bonomia ben augurante, intendono rappresentare gli istinti del Paese e che, formulati ad inizio anno, occupano in maniera chiara lo spazio del futuro più prossimo. Il discorso di fine anno di Matteo Salvini e quello del ricomposto duo Di Maio-Di Battista mirano a dimostrare che, al di là del buon padre di famiglia Mattarella, ci sono i veri interpreti del sentimento popolare, impegnati a manifestarsi più influenti dello stesso presidente e ben più in grado di cogliere i bisogni degli italiani.

I discorsi “paralleli”, didascalici in maniera brutale e dagli spiccati toni emotivi, vogliono mettere in luce che esiste, accanto allo Stato inerme del presidente, uno Stato del popolo, dichiaratamente anti-politico e, appunto, non convenzionale. Una sorta di democrazia diretta che non ha bisogno delle istituzioni paludate, ma vive nelle parole gridate dei leader.

Nel nuovo Stato del popolo, fondato sulle dichiarazioni continue e sulla costante simbiosi tra il cittadino-elettore in rete e il suo personale e personalistico riferimento politico, non può quindi esistere neppure un giorno di silenzio nelle comunicazioni né tantomeno appare ammissibile lasciare al buon padre di famiglia l’intera scena della politica perché qualcuno potrebbe prenderlo sul serio e smettere di considerare le sue parole un esercizio di stile, una recita sotto le feste, apprezzata al pari dell’albero, dell’ormai necessario presepe o del Cenone. Il sistema della narrazione popolare deve essere asfissiante, dalla dieta e dagli amori dei leader, ai microclip dell’informazione auto-prodotta fino all’abbigliamento e alle vacanze: il trionfo del banale, divenuto la sola “verità”, che non ammette altri registri espressivi se non confinandoli nell’immagine del passato remoto; come le parole del “vecchio” presidente. D’altra parte un discorso di 14 minuti, oggi, è inevitabilmente un sermone.

Università di Pisa

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