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Economia / Opinioni

Le sfide del 2019 per l’Italia e l’Europa

Lo spettacolo pirotecnico a Londra, la notte del 31 dicembre 2018 per festeggiare l'arrivo del nuovo anno

La debolezza del dollaro, la guerra commerciale tra Usa e Cina, le spinte populiste in Europa. Tanti elementi critici per l’economia che non promettono nulla di buono. Di fronte ad una possibile recessione non si può governare pensando solo agli umori istintivi degli elettori. Il commento di Alessandro Volpi

I segnali delle ultime settimane fanno presagire che il 2019 sarà un anno duro. La vigilia di Natale ha registrato il peggior tonfo dei listini di New York, in grado di trascinarsi dietro le borse mondiali. Le cause sono rintracciabili nell’ennesima, singolare uscita del presidente Donald Trump che ha attaccato frontalmente la Federal Reserve (la banca centrale USA) minacciando di sostituire il non troppo docile presidente, Jerome Powell, da poco nominato dallo stesso Trump.

Certo la Fed non gode dell’indipendenza della Banca Centrale Europea che non ha vincoli politici di alcun tipo, ma mai in passato, fin dai tempi di Ronald Reagan, un presidente aveva così interferito nelle scelte monetarie, neppure nei momenti più complicati. Legando peraltro simile interferenza a una feroce guerra commerciale, a una politica estera molto contraddittoria che oscilla fra isolazionismo e riarmo nucleare e a un conflitto aspro con il Congresso.

Questi elementi stanno spaventando il mondo perché fanno emergere con chiarezza una tragica confusione nella principale potenza mondiale, con rischi di impeachment e di insidiosissime notti dei lunghi coltelli maturate dopo infinite sostituzioni dei membri dello staff. In estrema sintesi gli Stati Uniti sembrano vivere sotto la presidenza più muscolare degli ultimi decenni una paradossale debolezza politica che minaccia il dollaro, valuta planetaria e l’economia mondiale.

Ma il vuoto di potere a stelle e strisce si accompagna a numerose altre fragilità in giro per il mondo. In questo momento, infatti, non esistono locomotive alternative agli USA. Il Giappone è ibernato in un debito pubblico che ha raggiunto in due decenni il 252% del Prodotto interno lordo, con un deficit annuo superiore al 5%, coperti dalle istituzioni finanziarie “nazionali” e dalla banca centrale giapponese con enormi iniezioni di liquidità. Una miscela altrove esplosiva che in Giappone non provoca scosse per l’enorme tasso di risparmio interno che è cresciuto di quattro punti di Pil in cinque anni e per una vera e propria deriva demografica che hanno gelato i consumi.

Neppure la Cina può sostituire gli stimoli americani e il grande freddo giapponese. La sua crescita è costantemente minacciata da una bolla bancaria e da un continuo surriscaldamento che necessitano dell’agganciamento al dollaro e di uno sbocco nei mercati statunitensi a tal punto da costringere il governo cinese ad accettare persino dazi molto pesanti. L’ex impero celeste è angustiato da un debito complessivo che ha raggiunto in poco tempo il 260% del Pil ed è afflitto da una pessima distribuzione della ricchezza dal momento che circa l’1% della popolazione ne detiene quasi il 44%. Dunque il turbocomunista Xijimping non può fare a meno del vetero yankee Trump che rischia di approfittarsene decisamente troppo.

Ci sono poi tensioni tra i paesi produttori di petrolio, fra i membri del cartello Opec (Organizzazione dei Paesi produttori di petrolio) e gli esterni, che tenderanno a deprimere i prezzi e a favorire rally speculativi animati dagli scommettitori al ribasso in grado così di abbattere i corsi azionari e obbligazionari fino a provocare lo scoppio di vere e proprie bolle, mentre l’Africa deve fare i conti con un’esplosione demografica che certo non sarà gestibile con le nuove politiche migratorie di Stati Uniti e Vecchio continente.

Se l’Africa è destinata a passare da un miliardo di abitanti, raggiunto nel 2010, a due miliardi prima del 2050, in grandissima parte costituiti da giovani, sarà inevitabile che la pressione verso il nord del Mediterraneo crescerà ogni anno e se la risposta sarà solo quella della chiusura delle frontiere, risulterà altrettanto evidente che ogni anno le tensioni si intensificheranno dentro e fuori i Paesi di destinazione dei migranti, contribuendo a spaventare i mercati e i risparmiatori.

In tutto questo proprio l’Europa rischia di essere nuovamente assente, condizionata da una campagna elettorale permanente per le europee e da tanti piccoli nazionalismi volti a paralizzare la forza espansiva dell’euro, che dovrebbe servire invece ad alimentare gli investimenti e a finanziare a interessi negativi i debiti pubblici. Il 2019 può essere l’anno di una sensibile discesa del dollaro, di nuovi dazi e di un brusco arresto dei mercati; se la risposta dell’unica area non soggiogata alle dinamiche americane sarà declinata soltanto in chiave nazionale dai singoli Stati europei, la recessione sarà quasi inevitabile. La Brexit congelata ad libitum, la Francia dei gilet gialli, la Germania del dopo Merkel alle prese con nuove difficoltà bancarie e l’Italia del trionfo della spesa corrente non promettono nulla di buono. Di fronte ad una possibile recessione non si può governare pensando solo agli umori istintivi degli elettori perché le crisi, in particolare quelle serie, non sono state mai prevenute dalla pancia.

Università di Pisa

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