Economia / Opinioni
Manovra e bilancino: la trattativa incerta tra il governo e la Commissione europea
“Al di là della retorica sovranista e ‘decisionista’, l’Italia si presenta in Europa con un’apparente e forse inutile durezza, abbinata ad una disponibilità a trattare quasi da bazar, chiedendo una vera e propria cambiale in bianco, senza aver ancora maturato un’idea precisa di che cosa fare”. L’analisi di Alessandro Volpi
Sembrano esistere almeno due evidenti contraddizioni nel modo in cui sta svolgendosi il confronto tra il governo italiano e la Commissione europea in merito alla Legge di bilancio. In primo luogo non è chiaro quale sia, realmente, l’oggetto del contendere. I più autorevoli ministri e sottosegretari dell’esecutivo Conte non perdono occasione infatti di replicare alle varie obiezioni che vengono loro rivolte sui contenuti della manovra, sulle coperture e sulla sua efficacia, sostenendo che non si tratta di un testo definitivo ma soltanto di ipotesi di lavoro, a cui metteranno mano il Parlamento e lo stesso governo, prima della scadenza ultima del 31 dicembre.
Per le due misure chiave, reddito di cittadinanza e “Quota 100”, che ora sembra destinato a durare solo tre anni di “transizione”, sono stati accantonati due fondi specifici, senza tuttavia che siano state fornite indicazioni sulle modalità con cui tali fondi verranno spesi. Anche sui saldi, sul rapporto deficit-Pil, fissato in un primo momento in maniera apodittica al 2,4%, pare emergere qualche incertezza e si profilano visioni diverse tra gli stessi ministri, con oscillazioni non banali. Non sono chiari neppure i tempi di entrata in vigore dei provvedimenti concepiti nella stessa manovra perché, in maniera inevitabile, non essendo stati definiti i provvedimenti non è dato di sapere quando diverranno operativi e quanto costeranno veramente; in una simile ottica, fissare il saldo, il costo definitivo della manovra e non aver determinato come si dovrebbe giungere a tale costo rende del tutto precario il saldo stesso perché le norme applicative, le regole, sono decisive per valutare la qualità e l’efficacia della spesa.
Al di là della retorica sovranista e “decisionista”, in estrema sintesi, l’Italia si presenta in Europa con un’apparente e forse inutile durezza, abbinata ad una disponibilità a trattare quasi da bazar, chiedendo una vera e propria cambiale in bianco, senza aver ancora maturato un’idea precisa di che cosa fare e dovendo scontare i sempre più gravosi effetti della intrinseca e forte disomogeneità del contratto di governo sottoscritto da due forze politiche molto, troppo diverse; in sostanza un “pasticciaccio”, per citare Gadda. Scrivere una Legge di bilancio con il bilancino e sperare che stia in piedi, reggendo l’urto dei mercati e avendo la bollinatura di tecnici, autorità indipendenti e degli altri partner europei è assai difficile; dunque se si va a cena in Europa solo per comprare tempo, nell’attesa di schiarirsi le idee, si rischia davvero di fare magre figure. D’altra parte proprio la questione del tempo contiene in sé la seconda contraddizione a cui si faceva riferimento.
Una delle argomentazioni utilizzate dal governo Conte, almeno dal premier e dal ministro dell’Economia, nella trattativa con la Ue è costituita dalla “scoperta” che il deficit sarà più basso perché, assai probabilmente, le misure della Legge di bilancio entreranno in vigore più tardi. Inoltre, aggiunge il governo, sarà necessario attendere l’esito delle relazioni tecniche sui costi reali delle riforme e poi indirizzare le eventuali somme recuperate ad investimenti per rabbonire l’Europa e migliorare le stime del Pil, altrimenti sempre più precarie. In altre parole, il tempo paradossalmente “guadagnato” per effetto della impossibilità di dare corpo subito ai provvedimenti previsti dovrebbe rendere meno critica agli occhi dei mercati e dell’Europa la manovra stessa; per essere ancora più espliciti, l’incapacità di attuare quanto promesso e programmato diventa una carta da utilizzare per dare più credibilità alla Legge di bilancio. Verrebbe da domandarsi perché le valutazioni in merito ai tempi di attuazione e ai reali costi delle misure concepite non siano state fatte prima della “radiosa” campagna di propaganda della miracolistica manovra. Si tratta di una domanda resa obbligata dal fatto che nel corso degli ultimi mesi proprio l’incertezza ha generato un forte aumento del costo degli interessi sul debito pubblico, che ha bloccato quella sua benefica “ristrutturazione”, in grado di sostituire titoli meno onerosi per lo Stato ai titoli venduti quando i tassi erano più alti, e ha causato un parziale effetto contagio sull’euro, indebolito al punto da preoccupare la Bce di Mario Draghi, a cui il governo italiano chiede invece la disponibilità a continuare la politica di liquidità facile.
Forse è il momento di non affidare più le sorti italiane alla sola narrazione. Per fare sul serio con l’Europa servono 7 o 8 miliardi di euro di nuove entrate, magari combattendo meglio l’evasione e pensando a qualche provvedimento fiscale realmente progressivo, o di minor spesa e occorre investire di più negli interventi che migliorino la qualità della vita degli italiani, dalle misure per combattere il dissesto del territorio alla ricerca e all’innovazione. Se l’Europa ci spinge in tale direzione è davvero così matrigna?
Università di Pisa
© riproduzione riservata