Esteri / Reportage
Tra i venezuelani in attesa sul ponte della speranza
Negli ultimi due anni, le persone che hanno lasciato il Paese governato da Nicolás Maduro sono quasi 1,6 milioni. Fuggono da un regime sempre più autoritario e da una crisi economica che ha aggravato povertà e corruzione
“Il mese scorso ho dovuto decidere tra pagare le spese del condominio o comprare gli assorbenti. Quel giorno abbiamo deciso di lasciare il Paese”. Sono le 7 del mattino a San Antonio del Táchira, Venezuela, frenetica città di confine con la Colombia. In coda per il timbro di uscita dal Paese sul passaporto ci sono circa 500 persone. È una fila ordinata: abituati a lunghe code per riscuotere la pensione, per comprare il pane a prezzo controllato, per fare benzina, per prelevare denaro, i venezuelani affrontano l’attesa con stoicismo. “Sono avvocato e mio marito è sociologo -continua la donna-. Nonostante lavorassimo entrambi non arrivavamo a fine mese”. Vanno a Lima, in cerca di un futuro migliore. Il governo peruviano ha manifestato la sua solidarietà con i venezuelani concedendo un permesso di soggiorno temporaneo a tutti coloro che entreranno nel Paese nel 2018. Altri sono diretti in Colombia, Cile, Ecuador: secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM, iom.int) in appena due anni la presenza di venezuelani negli altri Paesi del Sud America è cresciuta di dieci volte, dagli 88.975 del 2015, agli 885.891 nel 2017.
Sebbene il governo venezuelano non rilasci dati ufficiali sul processo migratorio, l’OIM stima che negli ultimi due anni abbiano abbandonato il Paese circa 1,6 milioni di venezuelani contro i 700.000 che lo avevano fatto nel 2015. Fuggono dal governo sempre più autoritario di Nicolás Maduro e da una crisi economica che sta assumendo i contorni della tragedia umanitaria: secondo il Fondo monetario internazionale, nel 2018, il Pil del Paese diminuirà del 15%, una riduzione cumulativa del 50% se si prende come riferimento l’anno 2013.
“Questa tendenza è il risultato di significative distorsioni microeconomiche e squilibri macroeconomici esacerbati dal crollo delle esportazioni di petrolio; quest’ultimo ha avuto origine nel forte calo del prezzo del greggio avvenuto a metà 2014 ed è continuato più recentemente con il crollo della produzione nazionale. Si prevede che l’inflazione raggiungerà il 13.000% nel 2018” si legge nel rapporto pubblicato a inizio anno dal Fondo monetario internazionale. La vertiginosa svalutazione della moneta nazionale, il bolivar, acutizza la speculazione e la carenza di beni di prima necessità e medicine nel Paese. Cresce la povertà e si deteriorano l’educazione, la salute, l’alimentazione e la sicurezza: l’indagine “Encuesta de condiciones de vida”, elaborata dall’Università Centrale del Venezuela e dall’Università Simón Bolívar ha rivelato che l’87% degli intervistati vive sotto la soglia di povertà (+ 40% dal 2014). Il 61,2% di essi si trova in condizioni di povertà estrema. Questo significa che tre famiglie su cinque non hanno abbastanza denaro per acquistare un paniere di consumo minimo. Per molti emigrare è l’unica speranza.
“Mia mamma soffre di ipertensione. Da mesi non prende i farmaci, non si trovano e non possiamo permetterci di comprarli fuori. Quando sarò in Colombia la potrò aiutare” – Jonel
“Il venezuelano che ama la patria non se ne va, quindi chi se ne va non serve. Che se ne vadano tutti quegli insetti”, ha dichiarato a febbraio in un’intervista televisiva Iris Varela, ministro del Potere popolare per il servizio penitenziario del Venezuela. E loro se ne vanno, via terra soprattutto, visto il costo proibitivo di un biglietto aereo. Secondo dati dell’autorità di controllo migratorio colombinano, ogni giorno per il ponte Simón Bolívar che connette San Antonio del Táchira con Cucutà, sul lato colombiano, transitano in media 25mila venezuelani. Di questi circa 4mila lo fanno con passaporto, il resto entra con la sola Tarjeta de movilidad fronteriza, già elargita a 1,5 milioni di venezuelani da parte dello Stato colombiano, per comprare cibo e medicine o per cercare di sbarcare il lunario contrabbandando pochi prodotti o facendo lavoretti informali nel Paese limitrofo. I 5.000 pesos colombiani (circa 1,50 euro) che guadagna un carretillero per trasportare valigie lungo i 450 metri che dividono il lato colombiano da quello venezuelano equivalgono nel Paese chavista a quasi un terzo del salario minimo.
Attorno alla diaspora dei venezuelani si sono create innumerevoli opportunità di commercio. Tra la gente in coda a San Antonio del Táchira passano ambulanti con termos di caffè, venditori di arepas (focaccine di mais), presunti “gestores” che promettono un servizio rapido, promoter di compagnie di bus che offrono viaggi diretti da Cucutà a Santiago del Cile (6.800 chilometri) per 360 dollari. Andare a Lima con un bus diretto costa 220 dollari: “Noi ci andiamo per tappe. Da Bogotà al confine con l’Ecuador. Poi Guayaquil, e infine Lima. Costa meno”, spiega l’avvocato facendo avanzare le loro quattro valigie.
50% la diminuzione stimata dal Fondo monetario internazionale del Pil venezuelano nel 2018 rispetto al 2013
Le difficoltà dei venezuelani in fuga dal regime cominciano nel proprio Paese: “Per ottenere il passaporto si deve chiedere un appuntamento al Servicio administrativo de identificación migración y extranjería via internet, ma il sistema è perennemente fuori uso. Bisogna contrattare un ‘gestore’, di solito una persona che ha contatti interni. A me è costato 2 milioni di bolivares (circa 5 dollari, ndr) per un appuntamento che normalmente ne costa 390.000 (meno di un dollaro). Una volta che hanno preso i dati, se vuoi il passaporto express in 15 giorni devi pagare altri 390.000 bolivares, circa un terzo di un salario minimo. Altrimenti non ti resta che aspettare. Conosco amici che aspettano da sei mesi”, spiega Jonel che a 23 anni lascia il Paese con 400 dollari in tasca e una laurea in architettura. Nella capitale ha lasciato la madre e due fratelli. “Mia mamma soffre di ipertensione. Da mesi non prende i farmaci, non si trovano e non possiamo permetterci di comprarli fuori. Quando troverò lavoro in Colombia la potrò aiutare”.
Alla vigilia delle elezioni presidenziali del 20 maggio sempre più venezuelani votano “con i piedi”, lasciando il Paese. “Le elezioni sono una farsa, la verità è che in elezioni senza osservatori internazionali vincerà sempre il chavismo”, dichiara uno sconsolato Jonel. A marzo, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, Zeid Ra’ad Al Hussein, ha denunciato che in Venezuela “il principio fondamentale della separazione dei poteri è stato gravemente compromesso, poiché l’Assemblea nazionale costituente continua a concentrare poteri illimitati. Due principali partiti di opposizione sono stati squalificati dal Consiglio nazionale elettorale e la coalizione di opposizione ufficiale è stata invalidata dalla Corte Suprema. La libertà di espressione, opinione, associazione e assemblea pacifica sono repressi e severamente limitati. Sono seriamente preoccupato che questo contesto non soddisfi in alcun modo le condizioni minime per elezioni libere e credibili”. Il 7 febbraio scorso sono naufragati i negoziati di Santo Domingo tra governo e opposizione, in cui uno dei punti in discussione era proprio la garanzia di elezioni libere e trasparenti organizzate da un Consiglio nazionale elettorale equilibrato.
Un fiume di gente passa guardando dritto davanti a sè per il posto di controllo della Policía migratoria venezuelana all’entrata del ponte: per i quattro funzionari incaricati è impossibile controllare tutti. Un’agente ferma una donna e le ordina di aprire la borsa. Estrae un sacchetto con pochi pacchetti di sigarette: la poliziotta lo getta in un cesto della spazzatura e immediatamente la donna fa apparire un mazzetto di banconote. La funzionaria le fa segno di entrare nella tenda verde alle sue spalle e quando la signora esce le viene restituito il sacchetto. Normale amministrazione in Venezuela, dove con una adeguata “collaborazione” tutto è perdonato. Uno striscione campeggia sull’edificio della dogana sopra di loro: “En esta aduana no se habla mal de Chávez”, qui non si parla male di Chávez, dice. È una campagna che si vede in molte istituzioni pubbliche in Venezuela ma che qui ha il sapore amaro della beffa. Con il loro bagaglio di borse e speranza, i venezuelani si accalcano tra le transenne del ponte che li conduce verso la dogana colombiana. La coda procede lentamente. A febbraio il presidente colombiano Juan Manuel Santos in visita a Cucutà -dove il massiccio esodo dei venezuelani sta prendendo la forma di un’emergenza sociale- ha annunciato più controlli alla frontiera e la sospensione dell’emissione della Tarjeta de movilidad fronteriza. “La Colombia non ha mai vissuto una situazione come quella che stiamo vivendo oggi”, ha detto Santos. Fino a un ventennio fa erano i colombiani a emigrare nel ricco Venezuela in cerca di migliori condizioni di vita o per sfuggire la violenza del conflitto armato. Oggi i ruoli si sono invertiti.
“Sono seriamente preoccupato che questo contesto non soddisfi in alcun modo le condizioni minime per elezioni credibili” – Zeid Ra’ad Al Hussein
Lungo i 2.219 chilometri di confine tra i due Paesi esistono più di 250 trochas, sentieri illegali -spesso controllati da militari venezuelani e gruppi armati colombiani- attraverso cui filtra il contrabbando di alimenti, benzina, carta moneta, droga, medicine, bestiame. Traffici illegali che danneggiano la Colombia e dissanguano il Venezuela, contro cui il presidente colombiano ha ordinato il dispiegamento di oltre 2.000 agenti in più.
“Passaporto, carta d’identità e biglietto dell’autobus”, esige l’agente colombiano all’altro estremo del ponte. Si tratta di un’ulteriore misura introdotta da Santos: per alleviare la crisi umanitaria che sta vivendo la città di frontiera, gli emigranti, per ottenere il visto, devono ora dimostrare di essere in possesso di un biglietto verso un’altra destinazione. I rifugi improvvisati negli spazi pubblici, il diffondersi di venditori ambulanti e lavavetri per le strade, l’aumento della criminalità e della prostituzione hanno portato i cucuteños al margine della xenofobia. La Parada, la piccola frazione colombiana di frontiera, è un mercato caotico dove si compra e vende di tutto, persino ciocche di capelli venezuelani per meno di 10 euro. Nei visi che si osservano in questo alveare di attività frenetica si legge angustia, rassegnazione, ma anche speranza, sollievo. Per chi ha ottenuto il visto sul passaporto la Parada è la prima tappa verso una nuova vita.
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