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Un buon motivo per andare a votare ci sarà. Ma quanta fatica
Seppure alcuni volti, linguaggi, poteri siano ancora gli stessi, l’Italia del 2018 non è quella del 1994. Si è mossa. All’indietro. Buona parte dei programmi elettorali, però, non sembra proprio essersene accorta. L’editoriale del direttore di Altreconomia, Pietro Raitano
Ci sarà pure un buon motivo per andare a votare, il 4 marzo. Lo dovremo pur trovare, per evitare di cedere alla forte tentazione di disertare le urne, di fronte non all’imbarazzo della scelta, ma alle scelte imbarazzanti che potremmo essere costretti a fare. Ci sarà pure un modo per non far parte della schiera -milioni di elettori- di chi ha perso fiducia, controllo e speranza e che non cede al ricatto del “voto utile”. Utile a chi, poi.
Che sia per il Parlamento o per la propria Regione non fa molta differenza: come siamo arrivati a vivere con sofferenza un rito sociale -ovvero un sistema politico- che è l’essenza stessa della convivenza? Non aiuta il modo in cui si è chiusa l’ultima legislatura, con la legge per il cosiddetto “ius soli” -che avrebbe riconosciuto (non “concesso”: riconosciuto, perché esiste già) il diritto di cittadinanza ai nati in Italia da genitori stranieri- affossata al Senato per mancanza del numero legale e da migliaia di emendamenti. Una autentica vergogna, nel senso di aver provato vergogna di fronte a un’ingiustizia inflitta a bambini e adolescenti. Ottocentomila. Che idea si sono fatti degli adulti, della politica, di tutti noi? Come cresceranno in questo clima che antepone quattro stracci di voti per tenersi una poltrona al loro presente, al loro futuro?
Non aiuta nemmeno la spiacevole sensazione di un déjà-vu lungo ormai un quarto di secolo per volti, linguaggio, poteri. Tuttavia l’Italia non è ferma al 1994. Perché l’Italia si muove, si è mossa, eccome. Ma all’indietro: ritornano spettri di un passato che sembrava, se non lontano, quantomeno stigmatizzato, demonizzato. Spettri che entrano nelle coscienze. A 80 anni dalle leggi razziali, si riaffaccia la cultura che le ha rese possibili. Non c’è crisi economica che giustifichi tutto questo. Che giustifichi l’incendio appiccato a una palazzina che avrebbe dovuto ospitare 35 profughi minorenni (ad Ascoli Piceno, a gennaio, in Italia). Eppure basta dare un’occhiata alla comunicazione elettorale. Più post, magari, e meno cartelloni per strada, forse. Ma la sostanza rimane sempre la stessa: fare leva sulla paura, sul risentimento, o peggio, sul senso di colpa. Ma il motore del cambiamento non può essere questo. Il cambiamento avviene quando lo si desidera. Chi, tra i candidati alle elezioni del 4 marzo, sarà capace di tratteggiare l’Italia che desideriamo? Quella capace di una strategia energetica nazionale diversa da quella intrapresa finora, ad esempio, che torni a puntare seriamente sulle fonti rinnovabili e la smetta di pensare alla Penisola come un hub del mercato europeo del gas.
Un’Italia che non promette improbabili flat tax o ancor più improbabili tagli miracolosi delle tasse, ma punta al valore, costituzionale, della progressività fiscale.
Ci sono candidati che riconoscono che, se c’è un nemico, questi non sono i migranti ma la disuguaglianza? In un Paese dove la povertà assoluta cresce fra le famiglie numerose con figli minorenni, la disuguaglianza è un attentato alla democrazia. Ma non solo: oggi la disuguaglianza è anche uno degli ostacoli alla tutela dell’ambiente, perché è alimentata dal sistema consumistico, l’unico in grado di far sì che i 500 uomini più ricchi del Pianeta abbiano un patrimonio di 5.300 miliardi di dollari, mille in più rispetto all’anno passato. C’è qualcuno tra i candidati che ricordi che l’istruzione universitaria è un bene, che non esiste “meno studi più lavori”, in un Paese in cui solo un diplomato su due si iscrive a una Facoltà? E che il diritto allo studio si garantisce anche con sostegni alle abitazioni, ai trasporti, all’acquisto di libri? E infine: qualcuno che parli chiaramente, senza giochi di parole, sottointesi o fraintendimenti intenzionali, di disarmo? Di ritiro delle nostre truppe da scenari di guerra? Di conversione dell’industria bellica? Un buon motivo per andare a votare ci sarà e continuiamo a cercarlo. Se è difficile, forse ce lo siamo meritati, delegando ad altri responsabilità che sono nostre. Ma quanta fatica.
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