Ambiente / Reportage
La rotta del turismo responsabile sul lago Titicaca
Lo specchio d’acqua più alto del mondo è una meta battuta da migliaia di visitatori ogni anno. Non sempre attenti all’equilibrio dell’ecosistema locale. Ecco le comunità che hanno immaginato un’alternativa
Verso sera le ombre dei massi squadrati della Mesa sacrificale si stirano sul terreno dell’Isla del Sol. È questo il cuore del Titicaca, il lago navigabile più alto del mondo, a quasi 4mila metri, e il più grande del Sudamerica: un piccolo mare scuro fra le Ande innevate di Bolivia e Perù, alimentato dalle piogge e dai ghiacciai. Reggendo il cappello di feltro per sottrarlo al vento, Firmin indica tre crepe nella roccia del sentiero, che ricordano vagamente orme di piedi: “secondo gli Inca il sole, appena nato, ha mosso qui i primi passi, per poi salire in cielo”. Anziana guida turistica del vicino villaggio, Firmin pronuncia queste parole dopo tanto tempo: sono mesi che a questo spettacolo non assiste più nessuno.
“È dall’inizio di quest’anno che i Challa bloccano gli arrivi”, spiega Freddy, attivista del villaggio dei Challapampa, che abitano nella parte Nord dell’Isla del Sol, vicino al sito sacro degli Inca. I Challa, che vivono al centro dell’isola, lungo la rotta che porta a nord, impediscono il passaggio di turisti e merci sia via terra che sul lago. Tirano pietre, arrembano le barche e le sequestrano. Più volte ci sono stati dei feriti. Ora le due comunità vicine, legate da intrecci famigliari ed entrambe di etnia aymara, la più diffusa intorno al lago, non si parlano più. “Tutto ha avuto inizio quando i Challa hanno cominciato a costruire un resort di lusso a trecento metri dal sito sacro -racconta Freddy-. Sarebbe stato solo il primo di una serie, ma noi dobbiamo proteggere questi luoghi”. Così i Challapampa hanno demolito le costruzioni dei loro vicini, che per risposta hanno dato inizio al bloqueo. “Prima, in alta stagione, ospitavamo in media 370 turisti al giorno”, dice piano Firmin, che per metà dell’anno fa ancora l’agricoltore. “Ora è difficile tirare avanti: le terre non bastano, la pesca è sempre più scarsa, e il turismo diventa fondamentale”.
Secondo le agenzie turistiche di La Paz, solo nella parte boliviana del lago, e in particolare fra Copacabana e la Isla del Sol, nel 2016 sono arrivati 600mila turisti, per tre quarti stranieri. Nel 2013 erano stati 300mila. Ma la crescita del turismo si intreccia a un’emergenza che anche i colori vivi, quasi mediterranei, del lago faticano a nascondere: l’inquinamento.
“La situazione ambientale del lago è terrificante”, commenta Enrique Richard, biologo all’Umsa di La Paz, che si immerge spesso nei fondali del Titicaca. “Solo dalla città di El Alto vengono riversate nel lago oltre 100mila tonnellate di rifiuti solidi all’anno. Invece da Puno, sul lato peruviano, si liberano scarichi fognari che distruggono la vita acquatica nella zona. Le miniere d’oro circostanti rilasciano nel lago metalli pesanti, soprattutto mercurio, e molti pesci ne contengono ben oltre i limiti previsti dall’Oms. Nelle coltivazioni intorno alle rive si utilizzano pesticidi altrove proibiti, come Ddt o lindano, che finiscono in acqua e si accumulano nella totora, che cresce sulle sponde. Questa pianta viene poi utilizzata come mangime negli allevamenti di mucche e pecore, cosicché i veleni finiscono per passare nell’essere umano, attraverso il consumo di latte o carne. Abbiamo ritrovato sostanze chimiche nel latte materno delle donne di El Alto”. Le specie endemiche collassano, gli oltre due milioni di abitanti del bacino del Titicaca si ammalano a ritmo crescente, la stampa internazionale comincia a parlare del problema, ma per ora nulla cambia. “Bisogna combattere l’ignoranza delle persone, che spesso trattano il lago come una discarica. E occorre che la politica si decida a fare rispettare le leggi: Evo Morales e il suo governo sono gravemente inadempienti sull’ambiente. Quanto al turismo, resta una grande opportunità per il Titicaca, ma bisogna renderlo sostenibile”.
“Siamo in tempo a virare verso pratiche più evolute, in fondo è solo da una ventina d’anni che in Bolivia si è affacciato un turismo un po’ strutturato”. Padre Leonardo Giannelli è nato 56 anni fa a Gubbio, dove è stato prete per 13 anni, prima di scegliere la Bolivia nel 2001. La sua missione è il centro culturale ed economico di Santiago de Huata, villaggio sulle rive del lago. “L’animismo qui è radicato: il cattolicesimo presso gli aymara diventa comunque un sincretismo. E l’unica via per parlargli è produrre una differenza nelle loro vite”. Così dal 2009 la parrocchia è diventata anche una piccola impresa turistica, che ha costruito e gestisce anche due catamarani a vela, ora ormeggiati fra le canne di totora. “Diamo lavoro ad alcuni ragazzi di qui, organizziamo gite in barca e trekking, tour fotografici, momenti di incontro e racconto con le realtà del lago. Il turismo eco-sostenibile è la nostra ottica”. Quando vuole sfogarsi, padre Leo si arrampica con la sua moto lungo gli sterrati che circondano il Titicaca. Da qua le città di El Alto e La Paz non si vedono, ma attirano i giovani. “Gli stipendi che possiamo offrire qui sono una frazione di quelli che trovano in città. Eppure chi lavora con noi sente l’orgoglio di una prospettiva diversa. Del resto, il rispetto per la Pachamama, la Madre Terra, è insito nella cultura animista. Dunque un discorso sullo sviluppo in armonia con l’ambiente e la persona può attecchire intorno al lago”. La vicina comunità di Tajocachi è stata scelta per un progetto della cooperazione svizzera, che installerà due piccoli resort ecosostenibili e un ristorante. In questo caso la missione farà da mediatore culturale e organizzativo, mentre i soldi saranno gestiti dalla comunità attraverso un’associazione. Padre Leo indosserà il caschetto di direttore dei lavori. “Bisogna decidere se vogliamo perseguire il modello turistico predatorio di stile occidentale, assorbito dal Perù, che è avanti 20 anni e più mercantilista, e da lì filtrato in Bolivia. Oppure se vogliamo che le iniziative turistiche, spesso ancora casalinghe e improvvisate, che si trovano sulla Isla del Sol e altrove evolvano in una direzione più lungimirante”.
Copacabana è una vivace cittadina costiera in terra boliviana, a pochi chilometri dal Perù. Le file di colorati pedalò a forma di cigno lungo la spiaggia ribadiscono la vocazione turistica cui la città intende consacrarsi. Molti vengono da La Paz o dal Perù per visitare il santuario mariano, ma gli hostales accolgono anche visitatori argentini ed europei, spesso in transito verso la Isla del Sol. Arrivano poi pellegrini che vogliono fare benedire le proprie automobili, secondo un rito che mescola nuovamente influenza cattolica e matrice animista. È a pochi chilometri da questa disordinata vitalità, a Sahuiña, che Felipe porta i turisti a scoprire la rana gigante, animale simbolo del Titicaca. Il piccolo museo galleggiante, gestito dall’associazione turistica locale, è uno dei pochissimi luoghi rimasti sul lago dove si può ancora trovare questo grinzoso anfibio endemico. Negli anni Settanta, l’esploratore Jacques Cousteau descrisse rane lunghe anche mezzo metro, oggi la specie è indicata come a grave rischio di estinzione ed è molto difficile osservarle se non in cattività. “Il loro ciclo di maturazione è lungo, e ormai poche rane divengono pienamente adulte”, spiega Felipe rovesciando dentro un recipiente di plastica trasparente un paio di esemplari grandi come un pugno, prelevati da una rete che si allunga dentro il lago. La rana gigante viene decimata dalla pesca, dall’alterazione chimica dell’acqua e dall’invasione delle trote d’importazione nordamericana, che si nutrono di uova e girini. Terminato il racconto, Felipe indossa un ingombrante costume che ricorda una barca, afferra un piccolo remo e inscena una danza antica, con cui gli aymara propiziavano la navigazione sul Titicaca. “Vogliamo mostrare ai visitatori in quale meraviglioso luogo viviamo, e chi siamo”. Si cala poi dal piccolo pontile per turisti, malinconico palcoscenico dove le tradizioni sembrano in bilico fra tutela e dispersione, e sorride: “Di certo è meglio il turismo della pesca, ormai difficile, o dell’agricoltura di sussistenza”.
Ogni anno vengono gettate nel lago oltre 100mila tonnellate di rifiuti solidi, solo dalla città di El Alto. A questi si aggiungono gli scarichi fognari e gli scarti di lavorazione delle miniere d’oro della zona, tra cui il mercurio
Wanda Nogales guarda a tutto questo dalla capitale La Paz. Non ha ancora quarant’anni e ha già lavorato per il parlamento e per il viceministero della Decolonizzazione voluto da Evo Morales, occupandosi di turismo. Oggi non sta più nei palazzi della politica e ha rafforzato il suo impegno di attivista. “Il Titicaca è un lago sacro, è vita, energia. Chiunque vi si rechi lo percepisce. Io stessa vado spesso sulla Isla del Sol per viaggi di scoperta spirituale”. Insieme a un ampio fronte di attivisti e studiosi, Wanda ha contribuito a redigere una proposta di legge per la protezione dei siti sacri. Tra i principi, si legge che i luoghi sacri ancestrali devono essere “considerati esseri viventi, antenati dei popoli indigeni della Bolivia”. Seguono norme concrete, mirate anche alla ricostituzione dei siti compromessi. Una proposta visionaria, “importante soprattutto in quest’epoca in cui le imprese e il turismo cominciano a premere su questi luoghi”, dice Wanda. Il testo sarà presto presentato al governo centrale. Morales in questi mesi sta cercando una strada per ricandidarsi per un quarto mandato, anche se la costituzione e un esito referendario contrario glielo impedirebbero. Dopo quindici anni di governo, il giudizio sul suo operato divide i boliviani. In questa delicata fase politica Wanda è ottimista: “crediamo che Morales possa essere più sensibile di altri a temi di questo genere, per questo dobbiamo fare in fretta”. Una legge simile amplierebbe il sentiero che già hanno cominciato a percorrere alcune piccole realtà del turismo sostenibile attorno al Titicaca. Forse queste norme avrebbero anche prevenuto lo scontro fra Challapampa e Challa che ha reso inaccessibile il nord dell’Isla del Sol. “Un tempo le due comunità condividevano il sito sacro e lo pulivano assieme -racconta Wanda-. Ora, dopo tanti mesi di conflittualità, sarebbe tempo che l’energia di questo luogo tornasse a disposizione di chi ne vuole godere”.
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