Economia / Opinioni
Le fragilità della manovra 2018: tra vincoli europei e strategia dei bonus
Su un totale di 21 miliardi di euro, ben 15 sono destinati a scongiurare gli aumenti dell’Iva, come da accordi con l’Unione europea. Restano così margini ristretti in cui operare per il rilancio dell’economia. Mentre si rafforza la strategia dei bonus una tantum. L’analisi di Alessandro Volpi
La recente manovra di bilancio approdata al Senato presenta due aspetti rilevanti che suscitano diverse perplessità. Il primo ha a che fare con le dimensioni complessive degli interventi previsti: su un totale di circa 21 miliardi di euro, ben 14,9 sono destinati a scongiurare l’applicazione degli aumenti dell’Iva imposti dall’Europa a garanzia della tenuta dei conti pubblici italiani. In altre parole, per effetto degli impegni presi dall’Italia in sede europea, sono state introdotte, purtroppo ormai da tempo, delle “clausole di salvaguardia” a garanzia del rispetto del percorso di rientro dei propri conti pubblici. Le clausole più pesanti riguardano appunto l’aumento automatico dell’Iva per permettere allo Stato maggiori introiti che può essere rimosso solo con altre misure.
Anche quest’anno dunque quasi 15 miliardi di euro di maggiori entrate e di minori spese sono finalizzati soltanto a rispettare un obbligo contabile, frutto dagli accordi europei, di cui si capiscono sempre meno le motivazioni. L’indebolimento dell’euro e i rischi di inflazione, che avevano originato simili clausole, sono oggi due pericoli assai remoti, come testimonia il collocamento a tassi negativi persino del debito pubblico italiano. Ma il paradosso europeo è ancora più evidente perché secondo le regole della Commissione europea l’Italia avrebbe già risolto i propri problemi strutturali in materia economica e quindi potrebbe sostenere uno sforzo di rientro dal deficit ancora più veloce; alla luce di ciò neppure i già ricordati 15 miliardi di euro potrebbero essere ritenuti sufficienti dai tecnici della Commissione stessa perché l’Italia non potrebbe più invocare le difficoltà di una congiuntura critica che allarga la forbice fra le sue potenzialità e i dati reali, la sola condizione in grado di legittimare un ritardo nel raggiungimento del pareggio di bilancio.
In estrema sintesi, la manovra che arriva in Senato è in larghissima parte una pesante partita di giro, in cui si scongiura un aumento dell’Iva imposto dall’Europa praticando tagli reali, che rischia tuttavia di non soddisfare il giudizio della stessa Commissione: è ben evidente che 15 miliardi su 21 non produrranno così effetti positivi. Sarebbe sufficiente infatti che in sede europea si prendesse atto dell’inutilità di clausole di salvaguardia tanto inutilmente gravose e, ipso facto, si libererebbero 15 miliardi da destinare alla ripresa della nostra economia.
Il secondo aspetto si lega invece a scelte di politica economica rispetto alle quali è opportuna una premessa di carattere generale. È chiaro che se la parte vera della manovra, tolti come detto i citati 15 miliardi, si limita a circa 5-6 miliardi, gli spazi per operare scelte significative risultano drasticamente ridotti, tanto più se la stessa manovra prende forma a ridosso di un anno elettorale e se quasi 3 miliardi di euro sono finalizzati al rinnovo del contratto dei dipendenti pubblici. Non è un caso così che nei 120 articoli che ne compongono il testo non ci sia una riflessione significativa sui temi fiscali, solo in parte trattati dall’apposito decreto la cui sostanza era stata, di nuovo, quella di scongiurare un altro miliardo di aumenti Iva recuperando ulteriori entrate.
Fatta questa premessa, però, rimane comunque poco comprensibile il rafforzamento della “strategia dei bonus”, intrapresa nelle ultimissime leggi finanziarie. Nel testo in questione si assiste infatti all’allargamento della platea dei beneficiari degli 80 euro, all’inserimento del bonus per gli abbonamenti autobus, treni regionali e metro, alla proroga del bonus cultura per i diciottenni, dell’eco-bonus per ristrutturazioni edilizie, del bonus giardini, dello sconto del 19% sulle polizze anti-calamità sulla prima casa e di altri bonus ancora.
Si tratta di misure che hanno inevitabilmente la natura dell’una tantum, anche se, appunto, prorogata e rinnovabile, e che sono finanziate dalla fiscalità generale. Proprio da questo ultimo elemento scaturisce una forte contraddizione perché la fiscalità generale dovrebbe privilegiare interventi di matrice strutturale e soprattutto volti a rispettare il principio costituzionale della progressività, per cui i benefici di natura pubblica dovrebbero essere destinati alle fasce socialmente più deboli e non spalmati in maniera uniforme sull’intera platea della popolazione. La maggiore semplicità nell’applicazione e la più diretta visibilità delle misure universalistiche non dovrebbero indebolire i fondamentali principi della giustizia sociale e della efficacia degli effetti prodotti nelle redistribuzioni dei redditi. Forse sarebbe stato più opportuno insistere maggiormente sul pur presente taglio del cuneo fiscale, puntando a rendere più pesanti le buste paga dei lavoratori e a rendere meno onerose le assunzioni stabili. I costi inutili dell’Europa e l’eccessivo peso delle scelte una tantum rendono la manovra 2018 assai fragile.
Università di Pisa
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