Ambiente / Opinioni
Trump dice di voler uscire dall’Accordo di Parigi, ma è un boomerang
Le parole del presidente non avranno effetti concreti. Se non quello di danneggiare l’economia statunitense. Dalla rubrica “Il clima è (già) cambiato” di Stefano Caserini
L’annuncio di Donald Trump di voler avviare le procedure per il ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi ha generato un “effetto boomerang” che era stato solo parzialmente previsto. Le critiche sono state sostanzialmente unanimi, da parte di quasi tutti gli altri leader mondiali, con solo alcune eccezioni. Le risposte di una settantina di sindaci, sia repubblicani sia democratici, di grandi città statunitensi (New York, Chicago, Seattle, Boston, Los Angeles, San Francisco, Miami, Houston) sono state immediate e decise, e hanno ribadito la volontà di assumere o confermare impegni di riduzione delle emissioni di gas climalteranti. La proposta avanzata da Trump -avviare un negoziato per un nuovo accordo- è quindi molto probabilmente destinata ad un nulla di fatto. L’Accordo di Parigi prevede tempi di uscita molto lunghi; la mossa di Trump non produrrà effetti concreti fino al 4 novembre 2020, data in cui gli Stati Uniti potranno formalmente abbandonare l’Accordo. La decisione di Trump avrà come principale effetto il disimpegno degli USA nel rilancio degli impegni di riduzione a livello globale, nonché il rifiuto di versare al Green Climate Fund quanto concordato fin dall’Accordo di Copenhagen nel 2009: è un contributo di diversi miliardi di dollari l’anno, per aiutare i Paesi poveri a sviluppare un sistema energetico non fossile e per adattarsi agli impatti inevitabili dei cambiamenti climatici.
1.219 fra Governatori, Sindaci, imprese, investitori, università degli Stati Uniti (rappresentano 120 milioni di persone e 6.200 miliardi di dollari dell’economia USA) hanno dichiarato il loro impegno a rispettare impegni simili a quelli dell’Accordo di Parigi.
Nei prossimi tre anni in cui comunque gli Stati Uniti saranno parte dell’Accordo di Parigi, è probabile che cercheranno di rallentare i processi di implementazione, facendo gioco di squadra con i Paesi arabi produttori di petrolio e la Russia di Putin, che non a caso è la sola grande potenza a non aver ancora ratificato l’Accordo. Ma è una tattica che gli USA avrebbero comunque potuto portare avanti, con maggiore efficacia, senza dichiarare esplicitamente la loro avversione al trattato. L’inconsistenza e la miopia delle critiche di Trump alla sostanza dell’Accordo di Parigi sono talmente evidenti che non hanno suscitato alcun dibattito. I numeri sulle probabili perdite di posti di lavoro (2,5 milioni entro il 2025) o sulla perdita di benessere conseguenti alle politiche sul clima, sono rozzi errori o vere e proprie bugie: tesi senza fondamento che assomigliano da vicino agli argomenti con cui nel corso degli anni Trump e i suoi collaboratori hanno denigrato o deriso la scienza del clima. Ad esempio, le stime dei danni per l’economia statunitense citate da Trump avevano alla base l’ipotesi che gli USA sarebbero stati l’unico Paese a ridurre le emissioni in linea con l‘Accordo di Parigi, cosa ovviamente poco sensata. Oltre a essere un atto per lo più simbolico, quello di Trump è un atto stupido, perché danneggia il negoziato sul clima ma soprattutto danneggia gli stessi Stati Uniti. Farà perdere competitività all’industria statunitense in quella che si sta defilando come la grande rivoluzione tecnologica del secolo. Gli investimenti nel settore dell’energia non stanno seguendo Trump; non è un caso che un’azienda americanissima come Tesla, che incarna la visione di un mondo decarbonizzato, abbia ormai superato in capitalizzazione di Borsa colossi come Ford e General Motors. Pur se è difficile trovare una razionalità nelle scelte di Trump, alla fine la spiegazione più solida di questa mossa è che la partita sul clima serva come contentino ai propri elettori, e più che altro un diversivo, un modo per spostare l’attenzione dalle difficoltà politiche che Trump sta incontrando, o dalle indagini sui suoi legami oscuri con la Russia.
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Stefano Caserini è docente di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “Il clima è (già) cambiato” (Edizioni Ambiente, 2016)
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