Esteri / Approfondimento
Il ruolo chiave della Mauritania nell’esternalizzazione delle frontiere europee
Terra di transito e insediamento di cittadini degli Stati confinanti, come maliani e senegalesi, il Paese dell’Africa occidentale ha stretto a marzo di quest’anno un partenariato migratorio milionario con Bruxelles mediante una dichiarazione congiunta non vincolante. Il crescente coinvolgimento diretto di Frontex e il legame tra queste politiche di chiusura e il passato coloniale
La Mauritania è sempre più centrale nel processo europeo di esternalizzazione delle frontiere. Il Paese dell’Africa occidentale sta infatti negoziando con l’Unione europea un accordo per il dispiegamento delle squadre Frontex sul suo territorio. Se lo “Status agreement” fosse adottato, l’Agenzia europea otterrebbe per la prima volta poteri esecutivi in un territorio geograficamente non europeo ed extra-comunitario.
Fino ad oggi la presenza dell’Agenzia europea in territorio mauritano è sempre stata temporanea e informale. Con l’accordo -in fase di negoziato dal 2023 anche con il Senegal-, tale scenario muterebbe, rendendo i funzionari Frontex operativi in modo duraturo e formale. Considerando che la Mauritania non applica gli stessi standard europei (indicati quanto meno sulla carta) riguardo ai diritti fondamentali, la relazione dell’eurodeputata Tineke Strike, risalente a novembre 2023, evidenzia che la sua adozione potrebbe esporre le persone migranti a ulteriori violazioni dei loro diritti. Per questo, l’Agenzia europea “non dovrebbe partecipare ad alcuna forma di respingimento e dovrebbe denunciare pubblicamente tali pratiche quando osservate o quando ne viene a conoscenza”.
L’adozione dello “Status agreement” farebbe avanzare di livello il processo di esternalizzazione delle frontiere e il protagonismo della Mauritania nella sua attuazione. Terra di transito e insediamento di cittadini degli Stati confinanti, come maliani e senegalesi, il Paese ha stretto a marzo di quest’anno un partenariato migratorio con Bruxelles mediante una dichiarazione congiunta non vincolante.
La partnership prevede un aiuto di 210 milioni di euro, i cui primi 60 milioni serviranno a ridurre -negli intenti- le partenze verso la Ruta atlantica: la rotta più letale al mondo che collega le coste dell’Africa occidentale all’arcipelago delle Canarie. Secondo la Ong spagnola Ca-minando Fronteras, infatti, nei primi cinque mesi del 2024 sono morte ben 4.808 persone durante la traversata, di cui 3.600 partite dalla Mauritania. Riguardo agli arrivi sulle coste canarie, da gennaio al 31 ottobre il ministero dell’Interno spagnolo ne ha registrati 34.087, un aumento del 12% rispetto allo stesso periodo nel 2023.
Il partenariato migratorio prevede, inoltre, una maggiore cooperazione tra Frontex e le autorità mauritane di frontiera. La stessa che nel settembre 2022 istituì una Cellula di analisi del rischio per raccogliere informazioni su attraversamenti irregolari, tratta di esseri umani e “altri crimini di frontiera”.
Ma andando a ritroso, è nel 2006 che si ebbero i primi contatti tra la Repubblica islamica e Frontex, quando con la “crisi dei cayuco” giunsero alle Canarie quasi 32mila persone partite da Senegal e Mauritania. Dall’evento scaturirono l’invio della Guardia civil spagnola (presente ancora oggi) nella capitale commerciale Nouadhibou, nonché la costruzione in città del primo centro di detenzione per persone migranti (detto El Guantanamito, “piccola Guantanamo”, chiuso definitivamente nel 2020), con il supporto dell’Agenzia spagnola per la cooperazione internazionale (Aecid).
In quell’occasione, Frontex aveva dispiegato le operazioni “Hera I” e “Hera II” per identificare e dirottare le imbarcazioni dirette alle isole Canarie. Avviate su impulso della Spagna e condotte assieme a diversi Paesi nordafricani e dell’Africa occidentale, tali operazioni inaugurarono la politica europea di esternalizzazione delle frontiere.
Sul punto, Hassan Ould Moctar, ricercatore della School of oriental and african atudies (Soas) dell’Università di Londra, ripercorre in “After border externalization. Migration, race, and labour in Mauritania” i processi che hanno portato la Repubblica islamica a collaborare con l’Ue.
Specializzato in politiche di esternalizzazione in Africa occidentale e Mauritania, il ricercatore effettua un parallelismo tra le politiche europee di frontiera e il passato coloniale, sostenendo che alla base delle prime vi sia, tra gli altri fattori, il cambiamento socio-spaziale innescato dal colonialismo francese. Moctar spiega che durante la colonizzazione -terminata con l’indipendenza del Paese, nel 1960-, il fiume Senegal rappresentava la linea di demarcazione tra le colonie senegalese e mauritana. Da ciò, seguì l’imposizione di regimi fiscali differenziati tra i “sudditi neri” che risultavano residenti fiscalmente in Senegal pur non risiedendovi fisicamente, e i “bianchi” che restavano residenti fiscali nei territori mauritani.
L’attribuzione di una specifica etnia a un territorio ha dato vita a un modello territoriale rigido, volto a limitare la mobilità. Ciò in netta contrapposizione al modello fluido dei territori precoloniali, caratterizzato da forme di “territorialità itinerante”, dove “le entità politiche non erano delimitate da confini […], ma da una sovrapposizione di spazi multipli costantemente uniti, disgiunti e ricombinati”, come articola il filosofo camerunense, Achille Mbembe, citato da Moctar.
La repressione della natura nomadica della mobilità e la razzializzazione dell’appartenenza al territorio hanno innescato due fenomeni. Innanzitutto, la discriminazione razziale fortemente radicata nella società mauritana. All’indomani dell’indipendenza, il potere passò alla minoranza arabo-berbera Beydan (o “mori bianchi”) che da allora domina ogni ambito pubblico, a scapito degli Haratin (o “mori neri”, arabofoni), discendenti da persone rese schiave, e degli afromauritani di lingua ed etnia Fulani, Soninke, Wolof, Bambara. Esclusi di fatto dallo Stato, gli Haratin non possono registrarsi all’anagrafe per la loro discendenza, mentre gli afromauritani vivono senza i documenti d’identità dal censimento del 2010. Gli afromauritani sono anche vittime della violenza della polizia che, per pregiudizio razziale, li arresta ritenendoli “migranti”. Le forze di sicurezza mauritane addestrate dalla Guardia civil spagnola esercitano questa stessa violenza su rifugiati e lavoratori migranti, detenendoli e deportandoli grazie ai fondi Ue.
In secondo luogo, ha gettato le basi dell’esternalizzazione dei confini, proiettando verso l’esterno un nuovo modello di organizzazione territoriale. Con il supporto economico europeo e quello pratico dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), la Mauritania ha creato 48 punti di accesso per monitorare gli ingressi e le uscite nel suo territorio, potenziando le infrastrutture di frontiera.
Negli anni sono state dislocate le guardie di frontiera nelle città omonime di Rosso (Senegal) e Rosso (Mauritania), sulle due sponde del fiume Senegal. Qui, è attivo il Personal identification and registration system (Pirs) dell’Oim che si serve di identificatori biometrici per raccogliere i dati “dei viaggiatori” e raggrupparli in un database condiviso con l’Interpol.
Le guardie di frontiera sono, inoltre, dotate del dispositivo di estrazione dati “Universal forensic extraction device” (Ufed), prodotto dall’azienda israeliana Cellebrite. Il giornalista d’inchiesta Andrei Popoviciu riporta per In These Times che l’Ufed è usato per recuperare messaggi, chiamate, posizioni Gps al fine di rintracciare gli africani occidentali intenzionati a migrare verso l’Europa.
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