Sport / Intervista
La finanza padrona del calcio e quella nostalgia retorica del pallone di una volta
Nel saggio “Fare gol non serve a niente”, pubblicato da add editore, Luca Pisapia ricostruisce la finanziarizzazione del “sistema calcio” e smonta il racconto idilliaco di un passato che in realtà non è mai esistito. Da Giuseppe Meazza a Enzo Fernandez, passando per David Beckham e Johan Cruijff, si va dalla nascita ai tempi moderni di uno sport-non più sport. Guardando dentro ai bilanci della Uefa e della Fifa
“Fare gol non serve a niente”. È il titolo lapidare del saggio di Luca Pisapia pubblicato quest’anno da add editore. Il giornalista ha scelto di unire i puntini per delineare quello che è diventato oggi il mondo del calcio. O forse di ciò che in realtà è sempre stato. E infatti smonta pezzo per pezzo quella retorica nostalgica di un passato “romanticizzato” che in realtà non è mai esistito, così come spesso se lo raccontano gli appassionati (e non) del mondo del pallone. Fin dalla sua nascita infatti il campo da calcio è stato un luogo d’espressione del contesto socioculturale in cui si trovava, e così oggi rappresenta l’esempio estremo della finanziarizzazione della società.
Pisapia, come nasce questo libro?
LP Ogni capitolo si apre con un’immagine di una persona che lavora: che siano i marinai che costruiscono una nave o un calciatore che si allena per la partita successiva. A mano a mano però che si procede nella lettura del libro questa forza lavoro diventa sempre più immateriale, ed è un passaggio fondamentale che si registra tanto nell’industria quanto nel mondo del pallone. Ho deciso che era importante scrivere un saggio per raccontare questa dinamica e ricostruire come il calcio fin dalla sua nascita sia una merce, un prodotto del capitale e risponde alle sue leggi ed è andato di pari passo con l’evoluzione delle modalità di produzione. Anzi, in alcuni casi le ha anticipate.
Che cosa hanno in comune Giuseppe Meazza e David Beckham?
LP Cerco di raccontarli come sovrapponibili, intercambiabili, perché entrambi rappresentano la stessa cosa con due funzioni molto simili. Siamo in piena rivoluzione industriale quando Giuseppe Meazza dà il via all’apparizione dell’eroe nella narrazione calcistica che nei fatti segna l’ingresso vero e proprio del pallone nell’industria culturale. “L’uomo simbolo” con le sue cadute e le sue rivincite serve a tenere “attaccati” allo schermo gli appassionati distratti. Meazza, fortissimo in campo, diventa più famoso per quello che fa fuori dal campo: le pubblicità, il regime fascista che lo usa come emblema, la leggenda sui pantaloncini tenuti su durante il calcio di rigore nella semifinale dei Mondiali del 1933, le relazioni extraconiugali. Tutto ciò che serve, come nelle serie tv, per creare attenzione intorno al personaggio e quindi a produrre indotto. All’inizio è un caso isolato, poi molti calpesteranno quelle stesse orme. E Beckham lo fa perfettamente perché anche lui è più famoso per quello che fa fuori dal campo. E si è creata una sorta di isteria collettiva sulla sua vita. Il calciatore inglese ha quindi la stessa funzione di Meazza: la forma è diversa, la sostanza no.
Dedichi un capitolo al general intellect di Marx nel calcio. Chi è la sua massima espressione?
LP La massima espressione del cosiddetto “calcio totale” è Johan Cruijff. Si vuol far credere che quel movimento sia nato dal nulla in Olanda negli anni Settanta e incarni l’idea di un calcio cooperativo, ma non è così. Quella stessa idea di gioco era già stata sperimentata in Ungheria vent’anni prima e anche il Liverpool, seppure con altre modalità, lo stava già provando. Ma anche in questo caso, il motivo di questa mitizzazione è dovuto a quello che stava succedendo nei Paesi Bassi negli anni in cui si è sviluppato. All’epoca quella olandese è una società chiusa e conservatrice nella sua etica protestante, incarnata nello spirito capitalista che però gli stava sempre più stretto. E serviva dunque un cambiamento a più livelli: da quello architettonico a quello artistico passando per il mondo letterario. L’Ajax, il Feyenoord e poi la nazionale mettono in scena questo rinnovato movimento sociale che rappresenta la nascita dell’aristocrazia operaia e che si fonda sul principio dell’intercambiabilità: un operaio che sa coprire diversi ruoli può spostarsi in diversi settori ed essere imprenditore di se stesso. Così avviene anche nel calcio e Cruijff è il profeta perfetto. Pensiamo a quando gioca con lo scotch appiccicato sulla maglietta perché il suo sponsor era in contrasto con quello della nazionale. Questo viene raccontato come momento di rottura quando in realtà non è così. Nel momento in cui a ciascuno viene data la libertà d’impresa nasce una condizione di precarietà totale, così come l’inizio della fine dello Stato sociale, dalla sanità alla scuola. Restano le partite Iva che cercano disperatamente di sopravvivere.
Il calcio totale però per molti rappresenta anche un’idea cooperativista e socialista del pallone. Non è mai stato così?
LP Il calcio può piegarsi e sponsorizzare la lettura che più torna comoda in un determinato momento: questo calcio totale può essere proposto con una visione socialista, quella del Liverpool -tutti portuali e minatori e la solidarietà di classe in un gioco collettivo- ma anche come capitalismo di Stato -la fabbrica del calcio totale della Dinamo Kiev dove Valerij Lobanovs’kyj è un ingegnere che porta l’informatica nel pallone- che poi crollerà. Oppure può essere reazionaria e in chiave post-moderna con Arrigo Sacchi che punta tutto sul copiare il sistema del calcio olandese: utilizza il sistema delle “repliche” come il suo presidente Silvio Berlusconi ha fatto nei suoi programmi televisivi. In altri termini: il calcio totale difficilmente è un elemento reale di rottura ma viene usato per traghettare un preciso modello.
A inizio maggio 2005 la miliardaria famiglia Glazer rastrella il 98% delle azioni del Manchester United con una discussa operazione. Perché quella data è un punto di non ritorno?
LP In quel caso il cambiamento del calcio va di pari passo con quello finanziario, ovvero nasce un’economia slegata dalla produzione materiale e che si può fondare solo ed esclusivamente sul nulla, sul vuoto, sul debito che poi viene “riempito” con altro debito. Nel 2005 esplode la prima crisi del debito che è quella immobiliare negli Stati Uniti e anche il mondo del pallone, con il caso del Manchester, si scollega dalla “produzione”: i fondi di private equity non quotati in Borsa e con molta libertà d’azione hanno lo scopo di raccogliere soldi da altri fondi e creare una nuova entità per fare determinate operazioni e poi restituire i dividendi agli azionisti. Il calcio del futuro, di cui molte tracce sono già ben visibili nel presente, è questo: fondi di investimento che si compreranno l’un l’altro le squadre per fare profitto.
Il problema del calcio moderno sono l’Arabia Saudita e il Qatar?
LP Questi Paesi non lo fanno a mio avviso per nascondere violazioni dei diritti umani di cui si rendono responsabili. A queste economie dominanti interessa molto poco di come vengono visti da noi occidentali. Bensì vogliono avere un campionato di calcio in cui giocano top player, e lo stesso vale per il torneo di golf e di tennis, e si prendono quello che più gli piace. Se si guarda ai numeri il problema non è il mercato dell’Arabia Saudita ma la Premier League. Così come è stucchevole lamentarsi che chi ha soldi si compra i migliori: che cosa hanno fatto Silvio Berlusconi, Angelo Moratti, Mario Cecchi Gori e compagnia? Insomma dobbiamo prima guardare in casa nostra.
E in questo contesto che ruolo giocano la Uefa e la Fifa?
LP A livello mediatico fanno finta di farsi la guerra ma in realtà vanno molto d’accordo: nonostante siano formalmente società senza scopo di lucro macinano milioni di euro fin dagli anni Cinquanta. Per prime hanno capito l’importanza della televisione, con l’ex presidente Joseph Blatter che è stato tra i protagonisti, oltre che dello scandalo legato alla corruzione, anche del traghettamento del calcio moderno basato sugli introiti miliardari dei diritti televisivi che dagli anni Ottanta sono cresciuti a dismisura arrivando a coprire l’80% dei bilanci di queste organizzazioni. E per la Fifa il discorso è lo stesso: il presidente Gianni Infantino era il terzo uomo della triade, uscito pulito dallo scandalo ma subito premiato. E queste due immense associazioni reinvestono tutti gli utili che producono e lo fanno con più real politik di molti governi: pensiamo al fatto che sono state le prime a “buttarsi” nei Paesi del Golfo, con Infantino che addirittura si prende la cittadinanza qatarina presentandosi alle partite inaugurali prima tra Vladimir Putin e Mohammad bin Salman Al Sa’ud, e poi tra quest’ultimo e Tamim bin Hamad Al Thani (emiro del Qatar, ndr) diventando l’uomo che certifica la “pace” tra Qatar e Arabia Saudita. C’è lui nella foto, non il presidente degli Stati Uniti. Queste dinamiche sono molto rappresentative di che cosa è stato sempre il calcio e lo è ancora oggi. Prima usato da Benito Mussolini e Jorge Rafael Videla, oggi dalla finanza.
Perché Moisés Caicedo ed Enzo Fernandez segnano secondo te lo spartiacque tra il pallone come merce e quello come prodotto finanziario?
LP Enzo Fernandez aveva giocato una stagione in Argentina e appena sei mesi in Europa. È vero che aveva vinto i mondiali ma era molto acerbo: viene acquistato per 121 milioni di euro diventando il trasferimento più costoso di sempre della Premier League fino a quel momento, pagato dieci volte rispetto a quanto aveva speso il Benfica per acquistarlo. Idem Moisés Caicedo che dopo una parentesi nel campionato belga torna a Brighton dove gioca pochissime partite a fine campionato quando la squadra di De Zerbi era già salva. Nell’agosto 2023 viene acquistato con il nuovo record di spesa nel campionato inglese: 133 milioni di euro. I blues in due anni sono arrivati a spendere 1,8 miliardi di sterline in calciomercato, con contratti decennali, spesso, perché a livello di ammortamento rispettano il fair play finanziario. Nonostante queste cifre faraoniche sono arrivati negli ultimi tre anni al dodicesimo, settimo e ottavo posto con quattro allenatori cambiati. Non serve che la squadra vinca, ma che funzioni come veicolo finanziario.
Quanto conta quindi fare gol?
LP Se lo scopo del calcio è vincere, nel nuovo mondo del pallone ritorna drammaticamente vera la frase di Pierre De Coubertin “l’importante è partecipare”, ma per ben altri motivi. Diventa infatti vera nella sua portata illogica e controintuitiva: oggi fare gol non serve a niente.
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