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“Quel che sta accadendo a Gaza non ha precedenti nella storia dell’urbanistica”

Due donne palestinesi si abbracciano dopo un bombardamento israeliano sulla scuola Salah al-Din di Gaza City © Mahmoud Zaki / ipa-agency.net

La distruzione della Striscia ha generato almeno 42 milioni di tonnellate di detriti: tra bombe e restrizioni israeliane ci vorrebbero 15 anni per spostarli. Una missione improba che impone un vero piano di cooperazione internazionale, senza blocchi, spiega Jamal Dabeek, direttore del dipartimento di Pianificazione urbana e gestione delle crisi e delle catastrofi all’Università di Nablus, in Cisgiordania

“Ricostruire Gaza a livello umanitario, politico ed economico”. Ad agosto, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha annunciato la proposta di un piano di ricostruzione e gestione dell’enclave palestinese, da presentare a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni unite in programma a New York dal 22 al 30 settembre.

A invasione israeliana ancora in corso, però, viene da chiedersi in che tempistiche possa essere messo in atto e con quali mezzi: la distruzione massiva delle infrastrutture ha infatti generato almeno 42 milioni di tonnellate di detriti, perlopiù derivanti dalla demolizione o danneggiamento di edifici. Secondo i dati raccolti e elaborati dal servizio satellitare dell’Onu (Unosta) sono oltre 156mila le strutture coinvolte negli attacchi, circa il 65% di tutta la Striscia di Gaza, di cui oltre 46mila completamente distrutte e 18mila in condizioni critiche.

“Per rimuovere una quantità tale di detriti in un anno, dovrebbero essere utilizzati almeno mille tir senza mai fermare i lavori”, spiega ad Altreconomia Jamal Dabeek, direttore del dipartimento di Pianificazione urbana e gestione delle crisi e delle catastrofi presso l’Università An-Najah di Nablus, in Cisgiordania.

“In questo momento, realisticamente, solo per spostare le macerie servirebbero 15 anni e almeno 500/600 milioni di dollari. È una tempistica dettata dalle più che probabili restrizioni del governo israeliano nell’accesso di macchinari, materiali edili e forza lavoro”. Una spesa che si aggiungerebbe agli oltre 50 miliardi di dollari stimati a maggio dal programma Onu per lo sviluppo (Undp), senza tenere in considerazione gli scorsi quattro mesi: “Oltre al problema dei danni, che potrebbero lievitare ancora di decine di miliardi, ciò che non è chiaro è chi pagherà e come interverrà nella ricostruzione”, continua Dabeek, sottolineando la non trascurabile necessità di alloggi e spazio per iniziare gli interventi. 

Con quasi due milioni di persone sfollate, infatti, la prima necessità a fine conflitto sarà quella di definire la sicurezza delle infrastrutture e comunicare agli abitanti della Striscia chi potrà ritornare a casa: “Allo stato attuale, tenendo in considerazione la quasi totale distruzione dei centri abitati di Gaza e un possibile 20% di rientri in abitazioni definite sicure, per ospitare temporaneamente la popolazione e garantire una corretta distribuzione demografica e l’approvvigionamento sul territorio bisognerebbe creare tra i 50 e i 60 nuovi campi d’accoglienza, con una capacità di circa 25mila persone ciascuno. Posto che ciascun campo occupi uno o due chilometri quadrati, si raggiungerebbe una superficie pari a cento chilometri quadrati, che allo stato attuale non è disponibile”.

Secondo l’ultimo report del programma ambientale delle Nazioni Unite (Unep), la quantità maggiore di detriti è a Gaza City, il più grande centro urbano palestinese, e nel distretto di Gaza Nord, con oltre 24 milioni di tonnellate di macerie. Seguono poi Khan Younis (8,5 milioni), Rafah (3,7) e Deir al-Balah (2,5), aree in cui è concentrata la maggior parte della popolazione sfollata.

La bonifica di questi distretti sarà fondamentale per rimuovere ordigni inesplosi, amianto, cavi elettrici scoperti e liquami, ma anche per recuperare gli oltre diecimila corpi ancora sepolti sotto le macerie. Si stima che per poter far spazio e accumulare tutte le macerie serviranno oltre 490 ettari di terreno, una superficie di circa cinque chilometri quadrati, e che per smaltirne il 50% occorreranno oltre 40 anni.

Un problema a cui si aggiunge lo smantellamento della rete stradale: come mostrato dalle rilevazioni satellitari Unosat, circa il 68% del manto stradale di Gaza è stato danneggiato, con oltre 1.190 chilometri di strade distrutte e 415 chilometri gravemente colpiti. Il rallentamento dell’approvvigionamento di materiali potrebbe rinviare i processi di ricostruzione di decine di anni, provocando una serie di crisi a catena su tutto il territorio, a partire dalla gestione dei terreni coltivati.

“In un territorio di circa 360 chilometri quadrati, i campi destinati all’agricoltura nella Striscia occupavano circa 150. Ad oggi, però, circa due terzi della superficie agricola è stato distrutto e compromesso dagli agenti chimici delle armi e dalle acque reflue”, aggiunge Dabeek, specificando che “la mancata manutenzione e ricostruzione del sistema idrico stanno avendo conseguenze devastanti sulla salute degli abitanti di Gaza e sull’ambiente”.

Secondo Oxfam, circa il 70% degli impianti municipali di desalinizzazione dell’acqua salmastra, dei pozzi e dei serbatoi di stoccaggio della Striscia sono stati compromessi, con Gaza City che ha perso quasi tutta la sua capacità di produzione idrica.

“Ciò a cui stiamo assistendo a Gaza è qualcosa che non abbiamo mai visto prima nella storia dell’urbanistica -conclude Dabeek-. È necessario un piano concreto di cooperazione internazionale e ricostruzione che permetta un intervento totale e non centellinato, che possa essere messo in pratica senza i continui blocchi del governo israeliano”. 

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