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Cultura e scienza / Intervista

“La linea del silenzio”. Una storia di famiglia e di lotta armata, metafora della memoria italiana

Gianluca Peciola © Stefano Corso

Gianluca Peciola, attivista per i diritti umani ed educatore romano, ha scritto un memoir, ma anche un romanzo di formazione e storico. Sugli anni Settanta, sulla storia della carceriera di Aldo Moro, ma soprattutto su un figlio che cerca di salutare un padre che pensa di non poter chiamare come tale. Un processo di scrittura e di pacificazione durato anni

La scrittura è una porta: quando la attraversi, diventi un’altra persona, che prima non conoscevi”. È stato davvero così per Gianluca Peciola, 54 anni, attivista per i diritti umani ed educatore romano, autore de “La linea del silenzio”, edito da Solferino. Peciola era un altro, con un’identità altra, a cui mancava un tassello decisivo, che ha potuto completare grazie alla scrittura e al “lavoro archeologico” che ha comportato.

Peciola, come definisce il suo libro?
GP Un memoir, ma anche un romanzo di formazione e un romanzo storico. E un’autobiografia, intesa come cura di sé.

Perché l’ha scritto e perché ora?
GP Sono partito da una necessità di riconciliazione col mio passato, che mi tormentava, ma ho scoperto punti di vista e interpretazioni, che neanche io avevo considerato. Io non porto il cognome di mio padre, ma quello di mia madre, quindi sono figlio di ragazza madre e quando ti succedono queste cose è come se ti dicessero che non devi pronunciare il nome di tuo padre, c’è qualcosa di indicibile. È da lì che sono partito e ho capito che il motivo profondo che mi ha portato a scrivere era la ricerca della verità, su quello che è successo a me e a mio padre e al rapporto tra i miei genitori.

Anche se il libro sembra, almeno all’inizio, la storia della carceriera di Aldo Moro, Laura Braghetti, per lei molto più di una cugina. Prova ancora vergogna quando sente parlare delle Br?
GP Marino Sinibaldi ha detto che il mio è un libro sulla complessità e infatti c’è tutto: vergogna, paura, preoccupazione, ma anche orgoglio. Sei un bambino che viene visto attraverso gli occhi degli altri: ti passa l’idea della vergogna per il giudizio, quella della paura di essere escluso, la preoccupazione negli occhi della tua famiglia. Ma c’è anche il tassista che ti riconosce, perché vai dalle “politiche”, come venivano chiamate, e quello che ti passa è un messaggio potente. 

Quanto c’è di romanzato nel libro?
GP Alcuni fatti sono accaduti quando ero piccolissimo e in questo senso sono romanzati. Io uso spesso la metafora del lavoro archeologico, perché devi trovare un giusto equilibrio tra la traccia che hai scoperto o riscoperto -la traccia mnemonica, un ricordo, una fotografia o un racconto- e l’astrazione del significato di quella traccia. Ma l’equilibrio deve essere vero, deve essere, seppur romanzato, onesto e corrispondere a qualcosa che ti è successo di intimamente vero. Andare, per esempio, a ricercare Gianluca bambino e scoprire, ricordarsi, che è passato per il supercarcere di Voghera, tra controlli e perquisizioni, a dieci anni. E capire che ha sofferto, anche se non sembrava, nonostante il tentativo di normalizzazione della mia famiglia, che è stata bravissima a farlo apparire come qualcosa di ordinario. Ma poi lì accadevano delle cose, che si scontravano con quella narrazione normalizzante. 

Stupisce la mancanza di rabbia in questo libro.
GP Sono stato arrabbiato, sono partito con un’intenzione punitiva, soprattutto nei confronti di mio padre, intimamente, non in maniera esplicita. Sono partito volendo scrivere un’autobiografia, volevo parlare di me, affermare un’identità -di combattente, di quello che ha avuto una storia radicale e anche interessante- ma scrivendo, ho scoperto che il richiamo del ritrovamento di un padre era più profondo e che dovevo andare a cercare altrove. Il non essere riconosciuti pone il tema della costruzione dell’identità e ho utilizzato la scrittura come una leva per andare a capire che cos’era successo.

Quindi non sapeva nulla di suo padre prima di scrivere?
GP Sapevo alcune verità, che mi erano state date da mia madre, da pezzi di famiglia e da mia sorella -che mio padre mi voleva bene, che loro si volevano bene- ma tutto diceva il contrario: non mi aveva riconosciuto e non ha lasciato niente di scritto. Tutto faceva pensare a qualcosa da tenere nascosto, di sbagliato e per anni mi sono accontentato della versione “è colpa sua, del padre”. Così, quando ho iniziato questa ricerca, volevo andare a trovare il colpevole.

E invece ha trovato nuove verità?
GP Quando ho iniziato a scrivere, ho cominciato anche a rivedere le fotografie e ho scoperto che comunque mio padre era presente ai compleanni, nelle vacanze, al mio battesimo e quindi qualcosa non tornava. Ho riparlato con mia zia e i parenti ancora vivi e piano piano ho ricomposto una storia e sono arrivato a una sentenza di assoluzione, non di condanna. Sono arrivato alla conclusione che i miei genitori hanno composto una storia d’amore, in un contesto storico e familiare che evidentemente non facilitava le cose. Scrivendo, ho iniziato a farmi le domande giuste, domande che non mi sarei mai fatto senza questo libro: un figlio come saluta un padre che non può chiamare tale? Su questa domanda mi continuo a commuovere e allora mi sono detto che deve essere stata questa la vita dei miei: ci ho costruito un’immagine che era d’amore, ma anche di privazione, sofferenza e distanza. E questo amare a distanza, senza riconoscimento e legittimazione, credo sia un messaggio forte: amare per amare. Un messaggio che va oltre me, che può essere un linguaggio comune, può riguardare tutti ed è questo, secondo me, il motivo per cui a questo romanzo si avvicinano persone che non c’entrano nulla con gli anni Settanta e la politica. Magari mia madre poteva essere più coraggiosa, avrebbe fatto meno danni a me, ci sarebbero state meno domande dolorose, ma alla fine penso che si debba essere un po’ indulgenti. Vedo che c’è un nuovo moralismo, rispetto alle debolezze delle persone, alla complessità dei sentimenti, sono tutti diventati giudici delle sofferenze e delle debolezze altrui e così diventa una società impossibile.

Quanto è durato il processo di scrittura e di ricerca?
GP Sono passati due anni dalla prima versione, che appunto andava alla ricerca dell’affermazione dell’identità. Ma era come vestirsi senza denudarsi. A un certo punto ho tolto il pudore e messo la verità e mi sono vestito, dopo essermi spogliato. Tutto questo ha richiesto molti anni.

Come ha reagito Laura?
GP Ha capito l’intenzione.  

Oggi si sente pacificato?
GP Vorrei fare ancora tante domande a mio padre e mia madre, ma alla fine, quando mi sono reso conto che loro, nonostante tutto, si sono amati e sono stati in qualche modo una famiglia, mi sono pacificato. Ho capito più o meno quello che era successo, ma per capirlo, devi fare i conti con l’accettazione, che da un atto paternalistico deve diventare un rapporto empatico con le fragilità dell’altro.  

Qualcuno dice che il suo libro è una metafora della storia italiana.
GP Perché c’è una necessità comune di fare pace con quegli anni. Se metti il coperchio sulle tribolazioni del passato, sugli scontri e le dimensioni irrisolte, che siano psicologiche, culturali o politiche, queste ti vengono a cercare e non ti danno pace. Credo sia questo il punto di contatto. Oggi nessuno riesce a spiegare il motivo per cui negli anni Settanta migliaia di persone hanno scelto la lotta armata o come l’uso della violenza rivoluzionaria abbia caratterizzato una stagione politica, che era fatta anche di quello. E definirli “anni di piombo”, perché sfuggono alla comprensione pubblica, rientra nel carattere ipocrita delle ricostruzioni storiografiche di un certo arco costituzionale, in cui tutto ciò che non era controllabile attraverso la democrazia e le forze politiche democratiche, era deviante e sbagliato. Io penso che si possa condannare, come bisogna condannare la lotta armata, ma si può al tempo stesso spiegare quell’esperienza politicamente, capendone le ragioni. A partire dalla sinistra comunista che ha espulso dalla sua biografia i propri figli, considerandoli illegittimi.  

Che cos’è alla fine per lei la scrittura?
GP Con questo libro è precipitato tutto il mio sapere, come se a un certo punto la scrittura fosse diventata una porta, attraverso la quale è uscita una persona che anch’io non conoscevo, una persona che sapeva scrivere, connettere i pezzi e indagare sui sentimenti, con un approccio molto onesto. A un certo punto si è aperta questa porta e mi sono detto: ci devo entrare, la devo attraversare e si sono ricomposte le nuvole.  

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