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Teatro e polizia penitenziaria. Un incontro disintossicante

Mimmo Sorrentino, a sinistra, durante il laboratorio teatrale nel carcere di Vigevano. Il regista è nato a Salerno nel 1963. È drammaturgo, regista e docente di Teatro partecipato presso la scuola Paolo Grassi di Milano e in master universitari post laurea © Mimmo Sorrentino

Nel carcere di Vigevano (Pavia) si è tenuto un laboratorio teatrale che ha coinvolto gli agenti ed è stato curato dal regista e drammaturgo Mimmo Sorrentino. Un’esperienza originale per scuotere un ambiente in guerra

Tratto da Altreconomia 271 — Giugno 2024

Mimmo Sorrentino, drammaturgo e docente di teatro partecipato presso la scuola Paolo Grassi di Milano, non nasconde l’indignazione per le violenze all’Istituto penale minorile “Beccaria” di Milano che definisce come il “simbolo del fallimento del carcere” ricordando però che “i luoghi ai margini raccontano anche gli angoli bui della nostra società”. “Ci indigniamo giustamente per quelle torture, ma siamo sicuri che non ci riguardino? -spiega- Quanti ‘Beccaria’ ci sono, fuori dalle mura? Non è sovrapponibile alle fosse comuni a Gaza?”. Il 18 giugno all’auditorium San Dionigi di Vigevano (PV), Sorrentino presenta i frutti di un laboratorio che sta svolgendo con un numeroso gruppo di agenti di polizia penitenziaria che quella sera porteranno in scena un testo che fotografa, dal loro punto di vista, la quotidianità nella casa di reclusione della città. Un’esperienza unica in Italia, che ha messo il regista in una posizione privilegiata per osservare il mondo degli agenti.

Sorrentino, che cosa ha capito lavorando a stretto contatto con gli agenti?
MS Gli agenti sentono la necessità di parole nuove che aiutino loro a capire dove sono. Lo racconto nel testo dello spettacolo: come fai a lavorare con un detenuto che ingoia le pile della radio o le penne? Che cosa gli dici? Gli fai rapporto? Sei impotente. Gli agenti sanno che gli manca una formazione adeguata. Faccio un esempio: mi è capitato più volte di assistere a diverbi con le detenute, in cui le agenti urlano usando il falsetto, cioè un tono di voce da maestrine che produce l’effetto opposto sulle detenute, che le ritengono messe peggio di loro. E le agenti si sentono sole, frustrate, fuori luogo e si arrabbiano ancora di più. Avrebbero bisogno di qualcuno che spieghi loro come ci si fa ascoltare. Altrimenti si produce una spirale di violenza che fa più danni alle agenti che alle detenute. In un contesto in cui chi ha la divisa, spesso, è più solo rispetto a chi è ristretto in carcere.

Addirittura?
MS Il detenuto, se la famiglia non lo abbandona, continua a sentirsi sostenuto da qualcuno. Viceversa se i suoi cari non gli stanno accanto, qualcuno riesce a sopportare il dolore, altri no. E lo vediamo nei suicidi. Per gli agenti è diverso. Appartengono al mondo della piccola borghesia che è rimasta ferma a quarant’anni fa alla famiglia del Mulino Bianco, dei viaggi nelle località esotiche. Ma quei modelli, oltre a essere patologici, sono totalmente desueti, astorici. Inoltre la competitività che caratterizza la nostra società li fa sentire sempre inadatti, inadeguati. E nel carcere cercano la soluzione al loro vuoto provando avanzamenti di carriera che finiscono per stritolarli maggiormente: più responsabilità e pochi soldi in più.

Durante lo spettacolo uno degli agenti protagonisti, Cesare, dice che in carcere ci si ritrova come in una “perenne guerra civile”. Tra chi è questa guerra?
MS In carcere paradossalmente non è la libertà a mancare (quella emotiva è impossibile da limitare) ma la pace, perché c’è una guerra perenne senza confini netti e separati: i nemici stanno all’interno dei vari gruppi, sia tra i detenuti sia tra gli agenti, e la possibilità di accordarsi è pressoché impossibile. E questo genera sofferenza, dolore, incomprensione, frustrazione e non dialogo. In carcere agenti e detenuti si trovano su un terreno bellico. Frutto di scelte del legislatore.

1,96 è il rapporto tra detenuti e agenti penitenziari nelle carceri italiane a inizio 2024, a fronte di una previsione di 1,5. Il personale di polizia effettivamente presente, come ricostruito da Antigone nell’ultimo rapporto “Nodo alla gola” è pari a 31.068

Ci spieghi meglio.
MS Il carcere dovrebbe educare le persone alla legalità e alla democrazia, ma di fatto è costruito sui pilastri di un sistema totalitario. Per intenderci: nelle democrazie e negli Stati liberali è permesso tutto ciò che non è proibito mentre in carcere è il contrario. Come nelle dittature è permesso solo ciò che è stabilito dalla legge. Di conseguenza, per ogni singola cosa, il detenuto deve fare una domandina e sperare che la sua richiesta venga accolta. Così è educato a comportarsi come in un sistema totalitario per poi dover vivere quando esce in un sistema democratico. E gli agenti mi hanno fatto notare che è un lavoro impossibile garantire che le persone facciano soltanto ciò che è permesso dalla legge e che quindi in carcere bisogna usare il “buon senso”. Che però è come il coraggio manzoniano, non te lo puoi dare se non ce l’hai. Così diventa molto alta la probabilità che le persone, brave o sadiche, inserite in un sistema con una organizzazione che fa confusione nei ruoli, negli obiettivi, nelle strategie, diventino aguzzine. Quando ci sono deformazioni, guasti così evidenti ed estesi, la responsabilità è dell’architetto del sistema. Il legislatore: il mandante, potremmo dire, delle torture di cui sono responsabili le persone che lavorano in carcere.

Nell’ultimo anno la crescita delle presenze in carcere è stata in media di 331 unità al mese. “Se dovesse venire confermato anche nel 2024 -ha denunciato Antigone- ci porterebbe oltre le 65mila presenze entro la fine dell’anno”

Qual è la sua idea sui fatti del Beccaria?
MS Da quel che ho letto in quel carcere mancava un direttore, quindi una guida e il comandante sembra essere implicato nei fatti criminali contestati. Che cosa ci si attende che accada in un carcere senza alcuna guida? Che detenuti e agenti pranzino insieme? Che si riconoscano reciprocamente? Forse nelle favole. Gli indagati, tra l’altro, sembrano siano agenti molto giovani: si sono ritrovati con una divisa addosso a fronteggiarsi con ragazzi di qualche anno in meno. Questo non dovrebbe succedere: i minori hanno bisogno di padri e non di fratelli maggiori con il compito di contenerli. E aggiungo che è molto peggio di Santa Maria Capua Vetere perché a Milano la violenza era sistematica.

Il sistema carcere è al capolinea?
MS È palesemente guasto e lo dimostrano i suicidi. Da gennaio a metà maggio sono stati 34 tra i detenuti e cinque tra gli agenti. Come può essere “rieducativa”, o semplicemente restare aperta, una struttura che spinge più di dieci persone al giorno, considerando anche quelli che vengono salvati, a togliersi la vita?

Francesca, una delle protagoniste dello spettacolo, esprime in scena la sua sofferenza nel non essere vista al pari dei suoi colleghi. Che cosa racconta il suo personaggio?
MS Fa emergere la dimensione patriarcale del suo mondo. Lei è un’agente di polizia penitenziaria che si sposa con un collega. Il marito per la cerimonia indossa l’abito di ordinanza, lei il vestito bianco. Il suo ruolo è di moglie, madre e non di professionista. Questa storia getta una luce sul ruolo della donna nella nostra società.

Qual è il sentimento più ricorrente tra gli agenti?
MS La solitudine, la rabbia, l’invisibilità, cioè il mancato riconoscimento sociale del loro ruolo. Del resto quando si ha un problema per strada non si chiamano loro. Se si leggono i giornali locali, però, risulta evidente che fanno molti più interventi d’urgenza e rischiosi dei carabinieri e dei poliziotti. Ma questo non si sa. E poi ce l’hanno con le istituzioni.

Perché?
MS Per scrivere il testo ho visto alcune cerimonie di giuramento dei nuovi agenti. In una di queste il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ha sostanzialmente detto che loro li sosterranno nel ripristino della legalità. Insomma, quasi come se paradossalmente suggerisse che la violenza va bene e che l’amministrazione sarà dalla loro parte. Ma gli agenti sanno benissimo che non è così. Che vengono usati in modo strumentale: sanno che da una parte c’è chi li vede solo come torturatori, dall’altra chi li governa e li usa per fini elettorali. Per questo, secondo me, provano molta più rabbia verso le istituzioni rispetto ai detenuti. Attenzione: magari ti dicono che le botte i detenuti se le sono meritate. Ma il rapporto detenuto agente è chiaro. È quello con chi li governa che è falso e per questo malato. Ciò che gli agenti mi ripetono di continuo è di essere soli.

“È uno scandalo far mangiare a tutti coloro che vivono il carcere, detenuti, agenti, dirigenti un cibo scaduto da anni, avariato. Bisogna cambiare la ricetta. Inserire alimenti freschi”

Perché secondo lei il loro mondo è uno specchio della società?
MS Perché si sentono impreparati a vivere in un mondo che corre a cento all’ora, dove non c’è posto per la storia, ma per il consumo immediato, tutto e subito. Perché “non ci sono più i detenuti di una volta”. Quelli di prima, purtroppo, si sapevano fare il carcere. Oggi si trovano di fronte il più delle volte detenuti con evidenti disturbi della personalità. E non hanno storie a cui aggrapparsi. Esperienze. Sembra proprio come la vita dell’umanità in questo periodo che pare essere senza precedenti e ci mancano le categorie per raccontarla e quindi viverla.

A che cosa è servito il suo teatro?
MS A provocare dei minuscoli cambiamenti in un mondo chiuso alla trasformazione. Quello degli agenti è un mondo distante ideologicamente da me: la cosa bella però è che ci si rispetta e ascolta.

Che futuro vede per le carceri italiane?
MS La partita tra chi si appella all’ordine pubblico per inasprire le sanzioni e chi invece si batte per i diritti dei detenuti mi sembra vetusta. È delirante applicare al carcere le stesse categorie in uso nell’Ottocento. Scadute. Ed è uno scandalo far mangiare a tutti coloro che lo vivono, detenuti, agenti, dirigenti un cibo scaduto da anni, avariato. Bisogna cambiare la ricetta. Inserire alimenti freschi.

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