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Esteri / Reportage

Il Burkina Faso in guerra si affida all’uomo forte. E guarda a Mosca

In Burkina Faso, come in Mali e in Niger, è sempre più diffuso il sentimento anti-francese. Nelle strade delle capitali dei tre Paesi si vedono sempre più spesso bandiere russe © Warren Saré

Il capitano Traoré è salito al potere con un colpo di Stato nel 2022. La sua missione? Sconfiggere i gruppi jihadisti che imperversano nel Sahel. Ma due anni dopo l’instabilità persiste e la crisi umanitaria si allarga

Tratto da Altreconomia 269 — Aprile 2024

Gerard Baku è un burkinabé di 30 anni che lavora come sarto nella capitale Ouagadougou ormai da dodici anni. Dopo aver lasciato la scuola ha imparato il mestiere e nel 2018 è riuscito ad aprire il suo primo piccolo atelier. Tuttavia, sebbene l’attività sia ben avviata, non è facile lavorare in un Paese sprofondato in una vera e propria guerra. “Sono specializzato in abiti per matrimoni e cerimonie, ma oggi sempre più spesso passo giornate intere a cucire divise militari: l’anno scorso ne ho realizzate almeno un centinaio per le nuove reclute che partivano al fronte”, racconta Gerard mentre posa le forbici e si siede su uno sgabello. 

“Il nostro Paese vive da anni sotto gli attacchi dei terroristi e io cerco di fare del mio meglio per sostenere il presidente e i fratelli al fronte”, confida mentre il suo sguardo corre al tavolo da lavoro con un paio di pantaloni ancora da stirare. 

A partire dal 2015 l’insicurezza in Burkina Faso ha iniziato ad aumentare principalmente a causa della presenza di gruppi armati non statali che oggi controllano più del 40% del Paese. Milizie anti-governative che appartengono a una galassia di gruppi estremisti jihadisti tra cui il Jamaat nusrat al Islam wa al muslimin (Jnim) e lo Stato islamico della provincia dell’Africa occidentale, che si muovono liberamente in un’ampia regione dai confini porosi che si estende per tutto il Paese fino ai vicini Niger e Mali. 

Gli attacchi ai danni della popolazione civile sono all’ordine del giorno, come quelli del 24 e 25 febbraio -ribattezzato il weekend nero- che hanno causato nella regione del Centro-Est la morte di 86 persone di cui 12 riunite in moschea per la preghiera e 15 in una chiesa cattolica nella zona di Gorom-Gorom. 

 

Prima che la sicurezza nel Paese degenerasse, Gerard poteva andare a trovare la sua famiglia al Nord a qualsiasi ora del giorno e della notte. E se aveva risparmiato abbastanza durante l’anno poteva prendere l’autobus per raggiungere le spiagge di Abidjan in Costa d’Avorio. Adesso, invece, uscire dalle città può voler dire rischiare la vita. 

Per capire il Burkina Faso di oggi bisogna fare un passo indietro e guardare al 2022, un anno spartiacque nella storia recente del Paese, durante il quale si sono verificati ben due colpi di Stato militari. Il secondo, avvenuto il 30 settembre, ha portato al governo il capitano Ibrahim Traoré, che oggi è il nuovo uomo forte al comando.

 

Il volto del giovane leader, salito al potere a soli 34 anni, ha conosciuto una certa popolarità anche fuori dai confini nazionali, grazie al secondo summit Russia-Africa che si è svolto a San Pietroburgo nel luglio 2023. I social network hanno diffuso in tutto il mondo le immagini del presidente burkinabé, in tenuta militare, che raccoglie l’applauso di un compiaciuto Vladimir Putin. Felice di poter mostrare, nel bel mezzo della guerra in Ucraina, come Mosca non solo non sia isolata internazionalmente, ma stia allargando la sua sfera di influenza in Africa. “I nostri capi di Stato africani devono smetterla di comportarsi come marionette”, ha tuonato Traoré che ha ribadito la necessità dei popoli del continente di diventare artefici del proprio destino. 

Sono state 86 le vittime civili registrate nel fine settimana del 24 e 25 febbraio 2024 durante il quale miliziani jihadisti hanno attaccato anche una chiesa cattolica (uccidendo 15 persone) e una moschea (12 morti)

Parole gettate come benzina sul fuoco delle proteste anti-occidentali che animano l’intero Sahel. Mali, Niger e Burkina Faso condividono una stagione fatta di colpi di Stato, lotta al jihadismo internazionale e di un sempre più diffuso sentimento anti-francese. Non è un caso che proprio questi tre Stati abbiano annunciato a fine gennaio 2024 la volontà di uscire dalla Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas), considerata troppo vicina all’Occidente, per dare vita alla nuova Alleanza degli Stati del Sahel.

“È innegabile che ci sia un filo rosso nella regione che unisce la crisi securitaria, il jihadismo, l’instabilità politica e la ridefinizione delle alleanze internazionali”, spiega Edoardo Baldaro, ricercatore dell’Università di Palermo e autore del libro “Sahel: geopolitiche di una crisi” (Carocci, 2022). “Tra le costanti -aggiunge- un sempre più diffuso sentimento anti-francese e un progressivo avvicinamento a Mosca. Non è un caso che per le strade di Ouagadougou, come a Bamako o Niamey, si vedano sempre più spesso bandiere russe. Bisogna però fare attenzione a misurare quello che è certamente un riposizionamento rispetto alle vecchie alleanze post-coloniali senza però farsi abbagliare dalla propaganda di Mosca che è interessata a mostrare la propria influenza nella regione anche al di là della sua reale portata”.

Nel corso del 2022 in Burkina Faso si sono verificati ben due colpi di Stato, l’ultimo dei quali ha portato al potere il giovane capitano Ibrahim Traoré © Warren Saré

Il Sahel diventa così una pedina all’interno di una scacchiera più grande e complessa, dove l’instabilità politica e la guerra si accompagnano a una crisi umanitaria senza precedenti. Secondo i dati pubblicati dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) nel 2023 si contavano in Burkina Faso più di due milioni di persone sfollate su una popolazione di circa 22 milioni.

La città di Djibo, a circa 45 chilometri dal confine settentrionale con il Mali, è diventata un tragico simbolo di questa crisi. “Prima che le condizioni di sicurezza precipitassero contava circa 70mila abitanti ed era uno dei centri per il commercio di bestiame più importanti del Sahel -spiega Ram de Burema, capo base a Djibo della Ong italiana WeWorld-. A metà marzo il mercato era chiuso e in città c’erano più di 340mila persone tra residenti e sfollati che hanno dovuto abbandonare le proprie case e vivono senza adeguate strutture sanitarie e idriche”. Il 28 novembre 2023 un gruppo di combattenti ha attaccato un campo militare in città uccidendo 40 civili e ferendone altrettanti. A Djibo anche le medicine scarseggiano e i rifornimenti dipendono dai voli umanitari delle organizzazioni internazionali. 

“Abbiamo programmi di sostegno psico-sociale per i bambini più vulnerabili. La domanda che ci facciamo tutti è: che ne sarà di loro tra dieci anni?” – Ram de Burema

L’arrivo degli aiuti è strettamente legato all’andamento della guerra: da gennaio a marzo 2023, ad esempio, nessun convoglio è riuscito a raggiungere via terra la città e questo ha fatto scattare il rischio carestia, con il 20% della popolazione che non aveva accesso nemmeno a un pasto al giorno. 

“Come operatori umanitari cerchiamo di ridurre l’impatto delle terribili conseguenze del conflitto -continua Burema- a Djibo per esempio organizziamo progetti di sicurezza alimentare attraverso la creazione di micro-giardini per permettere alle famiglie di avere una dieta più sana e variegata. Abbiamo anche dei programmi di sostegno psico-sociale, con centri di accoglienza per i bambini più vulnerabili. La grande domanda che ci facciamo tutti è: che ne sarà di loro tra dieci anni?”. 

Vite bloccate, senza possibilità di scegliere o pianificare il proprio futuro. Non solo a Djibo (che si trova in questa situazione da ormai due anni) ma anche in altre città come Dori, Ouahigouya e Titao che stanno diventando dei grandi campi profughi dove vengono accolti gli sfollati in fuga dalle aree rurali. 

A novembre 2022 Emmanuel Macron ha annunciato la fine dell’operazione militare Barkhane avviata nel 2014 e condotta da militari francesi con l’obiettivo di contrastare la presenza jihadista in Burkina Faso, Ciad, Mauritania e Niger.

Visto il permanere della crisi umanitaria, nonostante il sostegno della popolazione che da un anno ormai scende nelle strade e nelle piazze per vegliare e sostenere il presidente, l’obiettivo di Traoré di sconfiggere gli estremisti appare ancora lontano. “La verità è che l’idea della riconquista militare è un mito -spiega Edoardo Baldaro- prima di tutto perché l’esercito burkinabé non ne ha oggi le capacità militari. Ma anche perché denota una mancanza di comprensione di quello che sta succedendo. Nel corso degli anni l’esercito francese è riuscito a uccidere, attraverso operazioni mirate, la quasi totalità dei leader jihadisti. Eppure i loro gruppi sono lontani dall’essere sconfitti. Perché? Credo il tema di fondo sia da ricercare nelle origini e nelle motivazioni dell’insurrezione, che nasce da un collasso del sistema politico e dalla rottura del contratto sociale”.

La pace nel Sahel appare dunque lontana e mentre Gerard nel suo atelier continua a cucire uniformi per giovani militari che di notte marciano per le strade della capitale prima di essere inviati al fronte, a Ouagadougou e nelle altre città del Paese non c’è una famiglia che non abbia un figlio, un padre, un marito da piangere o di cui non ha più notizie. 

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