Ambiente / Approfondimento
Dalla Francia alla Spagna chi sono gli attivisti che “liberano” i fiumi
I corsi d’acqua europei sono frammentati da centinaia di migliaia di dighe e di barriere artificiali. Molte sono ormai obsolete e non più in uso, ma la loro presenza danneggia gli habitat naturali. Perché è importante agire per eliminarle
La Sélune è un fiume lungo circa 85 chilometri che attraversa la Normandia e sfocia nella baia di Mont Saint-Michel. Qui, come avvenuto su molti altri corsi d’acqua di tutta Europa, all’inizio del Novecento sono state costruite due dighe per produrre energia idroelettrica: la Roche-qui-boit, alta 16 metri, e quella di Vezins (36 metri). Barriere insormontabili per i salmoni, che hanno sempre vissuto e prosperato in questo ambiente, ma che per circa un secolo non hanno potuto risalire il fiume.
Nel 2004 le società che gestivano i due impianti hanno presentato al governo richieste di rinnovo della concessione, che sono state respinte: la quantità di energia prodotta era poca, nei bacini a monte delle dighe si erano accumulate grandi quantità di sedimenti e durante i mesi estivi nelle acque fiorivano alghe tossiche. A seguito di un’attenta valutazione, nel novembre 2017 il governo francese ha autorizzato l’abbattimento della diga di Vezins (avvenuto nel 2019) e della Roche-qui-boit, completato nell’estate 2022. “Ora il fiume è tornato a scorrere liberamente: abbiamo avviato un progetto di monitoraggio e speriamo di assistere velocemente a una ricolonizzazione della Sélune da parte del salmone selvaggio”, racconta ad Altreconomia Roberto Epple, tra i principali protagonisti della campagna che ha portato all’eliminazione delle due barriere e presidente dell’European rivers network, Ong impegnata nella conservazione e nella gestione sostenibile dei fiumi e dei loro ecosistemi.
“In Europa l’idea di eliminare queste barriere è nata negli anni Ottanta: quello che all’inizio era un sogno ambizioso di pochi oggi è diventato una realtà” – Pao Fernández Garrido
Epple ama profondamente i corsi d’acqua e ha dedicato tutta la sua vita alla loro tutela: “Ho promosso campagne per sensibilizzare la popolazione sul fatto che dobbiamo fermare la distruzione dei fiumi e iniziare a ripristinarli”, dice. Alla fine degli anni Ottanta è stato tra i protagonisti di una grande mobilitazione per evitare la costruzione di quattro nuove dighe lungo la Loira ed evitare così la distruzione dell’ultimo bacino fluviale francese intatto in cui i salmoni selvatici avevano ancora la possibilità di migrare liberamente. Non si tratta di una battaglia solitaria: dalla Spagna alla Lituania, dall’Estonia alla Finlandia decine di uomini e donne sono impegnati nell’abbattimento di dighe e barriere per ripristinare gli habitat dei fiumi. I loro sforzi sono riuniti all’interno di Dam removal europe (Dre), una coalizione di sette organizzazioni ambientaliste europee che ha tra i suoi obiettivi la sensibilizzazione sul tema e l’organizzazione di momenti di confronto tra esperti del settore per condividere informazioni e casi di studio. Pao Fernández Garrido, ingegnere forestale e projcet manager di World fish migration, ha attraversato l’Europa per incontrare questi water heroes e raccontare le loro storie nel documentario “Dambusters. The start of a riverlution”.
“In Europa l’idea di eliminare queste barriere è nata negli anni Ottanta: quello che all’inizio era un sogno ambizioso di pochi ambientalisti oggi è diventato una realtà”, spiega ad Altreconomia. Per capire l’urgenza di questi interventi è necessario fotografare lo stato di salute dei corsi d’acqua europei che, secondo le stime dell’Adaptive management of barriers in european rivers project (Amber), sono “spezzettati” da circa 629mila barriere di diverso tipo: dighe, la cui altezza può arrivare a decine di metri, salti, condotte forzate, paratoie e così via. Ma il numero reale secondo Fernández Garrido è molto più elevato: sarebbero almeno 1,2 milioni, a causa della presenza di moltissimi ostacoli non registrati.
“Con una media di 0,74 barriere per ogni chilometro, abbiamo i fiumi più frammentati al mondo, con gravi ripercussioni sugli ecosistemi. Il fatto che i sedimenti non possano fluire liberamente provoca erosione: gli estuari iniziano a scomparire e questo danneggia anche le spiagge -spiega Garrido-. I pesci migratori non riescono più a muoversi liberamente e questo può anche portare all’estinzione di alcune specie: è successo in Spagna con lo storione”. Secondo un rapporto curato dal Wwf e dalla World fish migration foundation, tra il 1970 e il 2016 la popolazione di pesce d’acqua dolce in Europa si è ridotta del 93%. Proprio per arginare il degrado degli habitat fluviali, l’Ue ha inserito tra gli obiettivi della “Strategia biodiversità” interventi di rimozione delle barriere per fare in modo che almeno 25mila chilometri di corsi d’acqua tornino a scorrere liberamente entro il 2030. L’attività dei “Dambusters” si inserisce perfettamente in questa cornice: nel 2021 sono state 239 le barriere eliminate in 17 Paesi europei (erano 101 nel 2020) secondo le stime dell’ultimo report di Dam removal Europe.
“I privati, soprattutto le grandi compagnie energetiche, non sono contrari alla demolizione di vecchie dighe. Ma non vogliono pagare. E fanno causa” – Pedro Brufao Curiel
A guidare la classifica, con 108 strutture rimosse è la Spagna, seguita da Svezia e Francia (rispettivamente con 40 e 39), Finlandia, Regno Unito ed Estonia. Numeri incoraggianti ma il rapporto evidenzia come siano almeno 150mila le barriere obsolete che imbrigliano i fiumi europei. In Spagna gli interventi interessano soprattutto piccole dighe non più in uso o la cui concessione è prossima alla scadenza. “Circa l’80% di quelle attualmente in funzione nel Paese sono state autorizzate almeno un secolo fa e oggi quei permessi sono vicini alla scadenza. Le autorità competenti riesaminano questi permessi, e sono migliaia, per decidere quali mantenere e quali no”, spiega Pedro Brufao Curiel, professore di Legge all’Università dell’Extremadura in Spagna.
La rimozione avviene in conformità con quanto previsto dalla legislazione nazionale (Ley de agua) e dalle Direttive europee Acqua e Habitat. Quando i danni causati da una barriera superano i benefici, le autorità di bacino ne ordinano l’abbattimento. A farsi carico dei costi dovrebbe essere l’intestatario della concessione: spesso però non è più reperibile o si rifiuta di partecipare alle spese. “Abbiamo un’attività molto intensa di fronte ai tribunali amministrativi spagnoli e persino davanti alla Corte suprema: i privati, in particolare le grandi compagnie energetiche, non sono contrari alla demolizione di vecchie dighe. Ma non vogliono pagare. E fanno causa allo Stato”, spiega Brufao Curiel.
Una situazione simile si riscontra anche in Francia. “Di solito gli interventi vengono pagati con risorse pubbliche -riprende Roberto Epple-. Nel caso delle grandi dighe, la cui concessione risale a 80-100 anni fa, non era prevista la possibilità di doverle rimuovere: non essendoci un impegno scritto, i proprietari non sono disposti a pagare. E interviene lo Stato”. Un contributo pubblico molto generoso (fino al 70-80% della spesa) è previsto anche per le barriere più piccole: “Il governo ha capito che sostenere questi interventi è il modo più efficiente per ripristinare gli habitat dei fiumi e raggiungere gli obiettivi della Direttiva acque dell’Ue”, sottolinea l’attivista francese.
In questo scenario spicca l’assenza dell’Italia: il database di Dam removal Europe registra meno di venti sbarramenti abbattuti nel nostro Paese negli ultimi anni (in larga parte concentrati nella Provincia autonoma di Bolzano) a fronte dei 3.400 della Francia, dei 1.700 della Svezia, degli oltre 500 in Spagna. Eppure i luoghi dove intervenire non mancherebbero. “Lungo i fiumi italiani ci sono migliaia di sbarramenti. Alcuni sono strategici e utili ma sicuramente ce ne sono alcune centinaia di poco utili o palesemente inutili: ma nel nostro Paese nessuno ha ancora avviato un percorso per fare questo tipo di valutazioni, in particolare approfittando della scadenza delle concessioni”. Andrea Goltara, direttore del Centro italiano per la riqualificazione fluviale (Cirf), analizza con una certa frustrazione lo scenario italiano, sottolineando come nel nostro Paese non solo non si stia lavorando per definire i piani di abbattimento, ma come addirittura la politica si stia muovendo in direzione contraria da quanto auspicato dall’Ue con la costruzione di nuovi sbarramenti, impianti idroelettrici e invasi dove conservare l’acqua per contrastare la siccità.
Ma anche su quest’ultimo aspetto restituire spazio ai fiumi e farli scorrere liberamente può portare benefici importanti: “Ad esempio consente di ricaricare le falde, un metodo più efficace per trattenere e conservare l’acqua, che negli invasi tradizionali è soggetta a evaporazione e perdita di qualità -riprende Goltara-. Ma se l’acqua dei fiumi viene quasi tutta prelevata per l’irrigazione o l’uso idroelettrico e scorre quindi perlopiù nei tubi, e in piena viene incanalata in alvei sempre più stretti, questa ricarica naturale delle falde si riduce sempre più e perdiamo un servizio importantissimo per l’adattamento al cambiamento climatico”.
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