Altre Economie
La discarica hi-tech
In Ghana, i bambini bruciano rifiuti elettronici per recuperare preziosi metalli. Pc, stampanti, telefonini arrivano anche dall’Italia, dove smaltirli costa
L’acqua della laguna è nera e gorgoglia: difficile credere che questo, fino a pochi anni fa, fosse un luogo incontaminato, meta degli amanti del birdwatching. Oggi solo pochi metri separano uno dei più grandi mercati di Accra, capitale del Ghana, da un’immensa discarica di rifiuti elettronici.
Visitiamo Agbogbloshie accompagnati da Mike Anane, un giornalista ambientalista ghanese che si batte per portare all’attenzione dei media internazionali il disastro ambientale che si sta consumando qui. Entrando nella discarica, improvvisamente non c’è più suolo, ma solo uno spesso strato di pezzetti di vetro, plastica e rifiuti, coperti da una patina di fuliggine nera.
Vediamo gruppi di ragazzi che alimentano diversi falò: Mike ci spiega che bruciano i cavi e altri pezzi in plastica per recuperare i metalli al loro interno. Per vincere l’effetto dei ritardanti di fiamma, usano come combustibile l’imbottitura dei frigoriferi, o pneumatici usati. Ne esce un fumo nero e puzzolente che ci fa lacrimare: il vento lo porta verso la città e verso il mercato, dove deposita piombo, metalli pesanti, diossine e altri composti tossici sulla merce in vendita. La discarica si estende a perdita d’occhio, e ovunque vediamo fuochi e persone al lavoro. Ci fermiamo a parlare con un gruppetto di bambini intenti a recuperare metalli: sono pieni di tagli, soprattutto nelle gambe, e in generale non sembrano in salute. Ci raccontano che vengono a lavorare qui tutti i giorni: preferirebbero andare a scuola, ma i loro genitori non guadagnano abbastanza per mantenerli. Sono gli unici bambini che abbiamo incontrato in Ghana che non sembrano aver voglia di scherzare e giocare.
Mike ne ha contati più di 500; la sua opinione è che se continueranno ad avvelenarsi qui, non arriveranno a compiere vent’anni. Ci mostrano come lavorano: rompono a pietrate i tubi catodici per recuperare le viti e i pezzi in metallo, smontano i telai condividendo un unico cacciavite, strisciano in terra la calamita di un altoparlante per recuperare metalli ferrosi: tutto rigorosamente a mani nude, e con infradito ai piedi. Nessuno tra loro sembra consapevole dei rischi a cui si espone respirando questi veleni, e Mike ci racconta che, anche quando riesce a spiegare alle madri a cosa vanno incontro i loro figli, la risposta è disarmante: se non lavorassero qui, morirebbero di fame.
Proseguiamo increduli la nostra visita e incontriamo persone di tutte le età. Chiunque trova un lavoro nella discarica: le venditrici di acqua, i compratori di metalli, gli smontatori specializzati per ogni tipo di rifiuto.
In lontananza scorgiamo una mandria di mucche, che pascolano dov’è rimasta ancora un po’ d’erba. Anche loro “abitano” nella discarica, e nei giorni freddi si immergono nel fumo per scaldarsi: chissà se qualcuno mangia la loro carne, affumicata dalla diossina. All’uscita ci puliamo mani e viso con salviette che restano nerissime. Ci bruciano la gola e gli occhi e ci chiediamo sconvolti in che condizioni siano i polmoni di chi lavora qui tutti i giorni.
La filiera dei rifiuti elettronici
Smaltire correttamente le attrezzature elettroniche è piuttosto costoso, quindi alcuni anni fa sono iniziate le prime “esportazioni” verso Paesi in via di sviluppo, in particolare verso Africa, India e Cina. Il gioco vale la candela: se smaltire un computer usato negli Stati Uniti d’America può costare anche 20 dollari, lo stesso pc in Africa ha un mercato: viene venduto -senza essere testato- a chi non può permettersi uno strumento nuovo, ma spesso viene gettato, perché in realtà non funziona. È un business estremamente redditizio, a cui si è subito interessata la criminalità organizzata, in aperta violazione delle convenzioni internazionali che proibiscono la vendita di hardware usato non testato. Nascono quindi nuove discariche, che in realtà sono laboratori a cielo aperto in cui vengono recuperati i materiali ancora utilizzabili -soprattutto rame, ferro, silicio e oro- per rivenderli a peso a chi li reimmette sul mercato internazionale, probabilmente rispedendoli negli stessi Paesi occidentali da cui provengono.
Mike racconta che ad Agbogbloshie la gente si guadagnava da vivere smontando vecchie auto usate per recuperare pezzi di materiale ancora utilizzabile. Poi, circa 8 anni fa, sono arrivati i primi rifiuti elettronici, a piccole dosi; da 5 anni a questa parte, il traffico internazionale è esploso: al vicino porto di Tema arrivano regolarmente interi container per essere acquistati da imprenditori locali.
La maggior parte dei pezzi ha ancora l’etichetta di inventario, che ha permesso a Mike di constatare che quasi tutti provengono da Europa, Usa e Giappone. Con l’aiuto di Greenpeace e dell’Interpol, ha poi verificato che i container europei arrivano in Africa partendo dal porto di Anversa. Questo traffico viene ricostruito, in parte, nel rapporto di Greenpeace “Poisoning the poor. Electronic waste in Ghana” (del 2008). È il circolo vizioso dei metalli: estratti nei Paesi del Sud con pesante sfruttamento di lavoratori e ambiente, arrivano sul mercato occidentale per soddisfare la crescente richiesta di prodotti tecnologici. L’obsolescenza programmata dalle case produttrici (vedi Ae 111) li rende rifiuti già dopo qualche mese, soppiantandoli con l’ultima novità del settore. E il rifiuto, costoso da smaltire, torna a Sud, dove è molto più facile liberarsene a scapito dei lavoratori e dell’ambiente.
I “Raee” e le conseguenze sulla salute
La crescita continua del mercato mondiale degli articoli elettrici ed elettronici sta determinando, insieme al sempre più breve ciclo di vita di questi prodotti, un forte aumento di rifiuti tecnologici (definiti Raee, Rifiuti da apparecchiatura elettriche ed elettroniche) nel mondo: la stima Onu è di 20-50 milioni tonnellate ogni anno.
La difficoltà principale per il riciclo è la presenza al loro interno di sostanze pericolose che, se non recuperate correttamente, si accumulano nell’ambiente provocando seri danni. Valerio Gennaro, epidemiologo di Medici per l’ambiente, spiega che se queste sostanze si diffondono -come avviene anche in caso di incenerimento- nell’acqua, nell’aria o nel cibo, i danni alla salute si moltiplicano. Un livello di inquinamento a dosi anche molto basse, ma di sostanze diverse, può avere un effetto esplosivo sull’organismo, soprattutto su alcune categorie particolarmente a rischio: donne in gravidanza e bambini, ad esempio, sono molto sensibili all’esposizione a piombo e mercurio, metalli pesanti tossici che, già a basse concentrazioni, possono causare danni allo sviluppo del feto. Le statistiche sui tumori non danno una visione completa dell’effetto di questo inquinamento, che causa anche malattie ormonali, circolatorie, respiratorie, immunitarie e nervose.
Il rapporto di Greenpeace “Toxic Tech”, in particolare, lancia un allarme nei confronti dei ritardanti di fiamma bromurati, onnipresenti, che influiscono sul funzionamento della tiroide e degli ormoni estrogeni; del piombo, presente nei tubi catodici, che può causare disfunzioni intellettuali nei bambini e danneggiare il sistema nervoso, riproduttivo ed ematico degli adulti; del Pvc, usato per l’isolamento dei cavi, che rilascia diossine durante la combustione; del cadmio, presente nelle batterie ricaricabili dei portatili, nei contatti e negli interruttori, tossico per i reni e le ossa; del cromo esavalente, usato nella produzione dei rivestimenti metallici, tossico e cancerogeno; del mercurio, presente nei dispositivi di illuminazione, che può danneggiare il sistema nervoso centrale.
Rosario Capponi, esperto indipendente di processi di recupero, spiega che sarebbe tecnicamente possibile riciclare quasi qualunque rifiuto elettronico, anche se per alcuni le tecnologie necessarie sono sofisticate. Il problema è che questo recupero deve essere accompagnato da una riprogettazione, almeno parziale, dei processi produttivi, necessaria perché la materia prima seconda, la sostanza recuperata dai Raee, tende ad essere meno pura ed omogenea rispetto alle materie prime. L’Unione europea ha iniziato a stanziare fondi per supportare questo sforzo, al fine di ridurre la dipendenza da fornitori esteri -Cina in particolare- di alcuni materiali strategici necessari alla produzione di apparecchiature elettroniche.
In futuro, potrà diventare davvero più conveniente avviare i Raee al recupero piuttosto che contrabbandarli verso il Sud del Mondo, e quel giorno forse i traffici internazionali non avranno più motivo di esistere. Per il momento però non è così, e la responsabilità, oltre che politica, è anche personale: per attaccare questo traffico è possibile agire a livello individuale, praticando la sobrietà (comprando meno apparecchiature, condividendole coi vicini di casa, facendole durare più a lungo) e il consumo critico. Una lettura utile, a questo scopo, è senz’altro la guida agli acquisti verdi che Greenpeace aggiorna frequentemente (www.greenpeace.org/italy), che aiuta a privilegiare i produttori di elettronica più attenti al problema.
Comprare, buttare, comprare
Agbogbloshie appare anche in molti video e documentari. In particolare, la storia viene raccontata da Mike Anane nell’ultima parte di “Comprar, llençar, comprar” (“Comprare, buttare, comprare”, in catalano) di Cosima Dannoritzer, regista e documentarista tedesca ma residente a Barcellona.
Il documentario (ne esistono due versioni, una da 52 e una da 75 minuti) denuncia, attraverso interviste e documenti dettagliati, la storia dell’obsolescenza programmata degli oggetti. I prodotti elettronici, in particolare, vengono “suicidati” ben prima della fine del loro ciclo, per poi finire in posti come Agbogbloshie. Il documentario si può vedere in catalano qui, in spagnolo qui, in tedesco qui, in francese qui