Ambiente / Opinioni
Campionato mondiale di EnduroCross nell’Appennino: un appello a difesa dei territori
L’evento di questi giorni in Valle Staffora e Val Curone con 800 moto mette a rischio la biodiversità e rischia di lasciare segni permanenti sul territorio. Le autorità locali festeggiano, mentre a livello nazionale si promette la transizione ecologica. Lo sbilanciamento tra grandi centri e aree interne continua, denuncia Paolo Pileri
Uno degli articoli che più mi ha colpito tra i bellissimi di Leonardo Borgese sul Corriere della Sera degli anni Cinquanta è quello in difesa dei tigli di Chiavenna (SO) che la giunta comunale voleva tagliare per far spazio al “diritto del nuovo”, allora costituito dalle auto nei centri storici. Rendere un fatto apparentemente marginale, accaduto nelle remote province, un tema di dibattito che interessa tutti perché dà una rappresentazione della crisi politica e culturale nazionale, lo trovo tanto geniale quanto irrinunciabile per un Paese che vuole rimanere sveglio davanti alle sfide.
Vorrei avere un centesimo di quell’abilità per riuscire a raccontare la vicenda del campionato mondiale di EnduroCross ISDE che sta mettendo a ferro e fuoco, proprio in questi giorni, due valli fragilissime dell’Appennino lombardo-piemontese conosciute da pochi: la Valle Staffora e la Val Curone. Una vicenda vergognosa perché ripropone la svendita del paesaggio di tutti per il “capriccio” di 800 enduristi che con le loro moto vanno su e giù per vigneti e boschi, solcando greti torrentizi e balze d’argilla, tagliando prati e sparando suolo e sassi ovunque. Chilometri di fettucce di plastica attaccate ad alberi e arbusti costretti a servire questo delirio senza opporsi. Per non parlare degli animali che scapperanno o verranno investiti. Tutto questo è stato deciso in modo frettoloso e poco trasparente, non coinvolgendo i cittadini e senza le valutazioni ambientali approfondite che manifestazioni simili richiederebbero. Unica prescrizione: lasciare alla buona fede degli organizzatori il rimettere in ordine, pur sapendo che il disastro ecologico non si sanerà.
È la contraddizione insopportabile di un Paese che nel suo Parlamento si vanta di aver avviato la più grande transizione ecologica nazionale non rendendosi conto che continua a essere saccheggiato e ferito nelle parti più fragili e interne, dove le autorità locali non riescono a vigilare. Non sanno che il ventre dell’Italia interna è molle e disarmato? Non sanno che davanti alle parole persuasive dei “guru dell’attrattività” e alle mirabolanti promesse di soldi che dovrebbero arrivare da una gara di EnduroCross, i sindaci non sanno far altro che accettare? Non sanno che alcuni tra loro, anziché farsi tutori del paesaggio, svendono i poteri amministrativi ai peggiori eventi perché pensano che con il territorio si può far quel che si vuole, soprattutto sfruttarlo e far pagare le spese alla natura e al contribuente? Non sanno che l’Italia è spaccata in migliaia di piccoli Comuni dove è impossibile accordarsi per respingere assalti del genere alla biodiversità? Come è possibile che nessuno dei deputati, ministri e consiglieri regionali non se ne occupi? Vorrei vedere se una gara di EnduroCross passasse vicino alle magioni umbre o capalbiesi di presidenti e onorevoli. Forse in alcuni posti i diritti sono più diritti di coloro che dalla sera alla mattina si sono visti nastri di plastica annunciare un tracciato di EnduroCross nel bosco davanti a casa?
Siamo ubriacati da un sentimento politico che con una mano disegna per noi una transizione ecologica e con l’altra non si occupa di vedere che cosa accade a terra, lasciando la natura senza diritti inviolabili e campo libero a chi vuole saccheggiarla. Vorrei raccontarvi di amministratori locali deboli, allineati agli organizzatori, che trincerandosi dietro al fatto che secondo loro il tracciato della gara non poteva essere rivelato anzitempo, hanno preso di sorpresa i cittadini togliendo il tempo e le forze per fare legittima opposizione. Vorrei raccontarvi di interrogazioni parlamentari e consiliari fatte ma ignorate, forse neppure cavalcate, da chi le ha fatte perché, come dicono sempre, “c’è altro da fare” o “non è il mio bacino elettorale”. Vorrei raccontarvi che questi eventi mondiali non durano sei giorni ma mesi e anni perché sono preceduti e seguiti da infinite e illegali scorribande di enduristi che vanno tra vigneti, campi, boschi devastando tutto, disperdendo rifiuti e sapendo che le autorità locali sono deboli e non hanno i mezzi di contrasto, non hanno polizia locale, non hanno soldi per mettere una sbarra o per controllare che tutto venga ripristinato.
Vorrei raccontarvi che tutto questo è l’immagine dell’incendio di quanto rimane della cultura civile, prima ancora che ecologica, di un Paese che ha imparato a parlare solo di quel che accade nei suoi centri urbani nevralgici e lasciare che altrove accada quel che accada. Tutti e ogni giorno ci riferiscono delle campagne elettorali di Milano e Roma come se il destino d’Italia fosse solo lì. Bene invece farebbero le alte cariche dello Stato a guardare quel che accade nei piccoli e fragili centri del Paese dove si consumano ingiustizie e dove si è imparato sempre più a essere appiattiti sui “capricci” del cliente metropolitano che paga (poco) e pretende (tanto). Alcuni Comuni avrebbero addirittura rilasciato patrocini e sostenuto economicamente l’organizzazione dell’evento ISDE (soldi pubblici, di tutti noi). Le nostre aree interne non possono e non devono essere il parco divertimenti di nessuno né la grande riserva di spazio e risorse per soddisfare gli appetiti del modello consumistico. Non devono essere viste come aree da elemosinare con qualche sussidio o qualche briciola.
Le alte cariche politiche, amministrative e culturali devono occuparsene non stando lontani, ma passeggiandoci dentro e toccando con mano che cosa sono. Il presidente della Repubblica e del Consiglio, i governatori e i deputati dovrebbero andare in quei boschi a vedere come le moto distruggono suolo e biodiversità, e a prendere atto della soddisfazione dei distruttori. Non possiamo più accontentarci di vederli in elicottero quando la natura è andata in fumo, è stata stravolta da alluvioni o seppellita da rifiuti. Troppo tardi. Devono decidere prima di occuparsene elaborando un progetto dignitoso che tratti quei cittadini alla pari dei cittadini metropolitani, che sproni i sindaci a fare battaglie per onorare la bellezza di quei territori perché ne sono fieri e alfieri, interrompendo le scorribande di chi vuole renderli servi di vizi e speculazioni, che incitino un riscatto dei territori fatto di rispetto massimo per il paesaggio in ogni sua forma e ovunque.
Se Antonio Cederna fosse tra noi non avrebbe un solo minuto di titubanza a chiamare “vandali in casa” coloro che hanno voluto il campionato mondiale ISDE e quanti hanno alzato le spalle. Quel mondiale negli Appennini non è una quisquilia e neppure un affare di provincia ma riguarda tutti noi e cosa vogliamo diventare. Il guaio è avere amministrazioni pubbliche deboli e politici compiacenti o troppo silenti se non addirittura promotori di questi eventi distruttivi. È il guaio cui una riforma del pubblico dovrebbe guardare.
Sono tante le lezioni che possiamo imparare da questa vicenda. In primo luogo, i nostri territori più fragili continuano a essere terreno di conquista di chi vuol farne quel che gli pare. Nessuno si sente politicamente ed eticamente fuori posto per aver approvato manifestazioni simili nel bel mezzo di discussioni sulla transizione ecologica e cambiamento climatico: questo ci dice che la distanza tra i propositi ecologici internazionali e l’azione amministrativa quotidiana nei Comuni interni è abissale e la nostra politica nazionale e regionale non sta facendo nulla di efficace per intervenire. Inoltre la maglia amministrativa è troppo scucita: non riesce più né a tutelare gli interessi collettivi ed ecologici né a garantire che il diritto dei cittadini a sapere e dissentire sia salvaguardato prima di ogni cosa.
Sta continuando il disegno perverso di sbilanciamento tra grandi centri e aree interne, tra modello sociale metropolitano (proposto come vincente) e modello sociale rurale (ignorato e considerato a disposizione dei più forti interessi). Le capacità culturali di opposizione da parte della classe politica e amministrativa sono spuntate: non sono sufficientemente preparati sulle questioni ecologiche che credono ancora un orpello e probabilmente non si rendono conto di ciò che avvallano nelle loro giunte comunali.
Questo vuole essere un appello sul filo di lana a qualunque carica istituzionale voglia dire qualcosa di netto ed ecologicamente schierato. Se prevarrà il silenzio e l’indifferenza ne prenderemo atto ma non dimentichiamo le parole di Hannah Arendt: “Chi sa di poter dissentire sa anche che, in qualche modo, quando non dissente esprime un tacito assenso”.
Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “100 parole per salvare il suolo” (Altreconomia, 2018)
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