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Il governo dei capicorrente e la rapida estinzione della politica
Nel momento più acuto della crisi pandemica il sistema istituzionale e politico italiano ha fatto ricorso a un tecnico proposto dal presidente della Repubblica. Un’anomalia che mostra debolezza e sfascio dei partiti. La spartizione di ministri e sottosegretari è andata ben oltre Cencelli. L’analisi di Alessandro Volpi
Stiamo accompagnando la politica verso una rapida estinzione. Può sembrare una banale generalizzazione, certo suscettibile di molte riserve alla luce di numerosi precedenti storici; tuttavia alcuni segnali in tal senso sono, in queste settimane, emersi con indubbia evidenza. Secondo gli ultimi sondaggi, la percentuale di elettori indecisi rispetto alla forza politica cui indirizzare il voto ha superato il 41% del totale degli aventi diritto; un dato molto indicativo dello smarrimento diffuso nel Paese. Si tratta di una percentuale alta che in buona misura è riconducibile alla trasformazione conosciuta dalla politica italiana negli ultimi anni.
La sostituzione della più consueta e tradizionale rappresentanza con la rappresentazione, per cui la scelta di aderire a un’offerta elettorale era fondata, quasi esclusivamente, su slogan che “raffiguravano” uno stato d’animo in larga prevalenza emotivo, è stata determinante nel semplificare lo stesso linguaggio politico. Nell’era della rappresentazione, si era contro o a favore dell’euro in quanto tale, si avversava o si difendeva il fenomeno migratorio, si era duri avversari della casta o si difendeva la necessità dei costi della democrazia, senza aggiungere troppe motivazioni. In altre parole, la narrazione politica si scontrava, in maniera netta e manichea, soltanto sul terreno delle didascalie.
Il trasformismo in essere dal 2018 ha finito per destabilizzare questa semplificazione sloganistica mettendo insieme, al governo, forze che si rappresentavano con termini tanto chiari quanto contrastanti. Nel gabinetto Draghi, poi, convivono quasi tutte le componenti politiche che avevano coniato proprio quei termini della semplificazione. È evidente dunque che, dopo la riduzione della politica a semplici slogan di appartenenza, il fatto di metterli tutti insieme in una stessa maggioranza di governo renda molto difficile per gli elettori italiani capire tra cosa scegliere. Il trasformismo poteva sopravvivere in una politica complessa, ma ha pochissime possibilità di reggere in un linguaggio politico scarnificato; non si possono mettere insieme “like” antitetici.
Una seconda considerazione riguarda ancora il governo Draghi. Colpisce molto il fatto che nel momento più acuto della crisi pandemica il sistema istituzionale e politico italiano abbia fatto ricorso a un tecnico di primissimo piano proposto dal presidente della Repubblica alle Camere. Si tratta di un’anomalia tutta italiana. Non è stata affrontata così la crisi in Germania, in Francia, in Inghilterra e in Spagna. I grandi Paesi europei, in altre parole, stanno provando a fronteggiare la crisi con le proprie “risorse” politiche. Del resto, questi quattro Paesi dal 1945 a oggi non hanno mai conosciuto governi tecnici che sono stati presenti invece in altre zone d’Europa: ci sono stati cinque governi tecnici in Grecia e in Romania, tre in Bulgaria e in Finlandia, due in Repubblica Ceca e in Portogallo e uno in Ungheria, oltre, naturalmente, ai tre governi italiani, a cui si dovrebbe aggiungere quello “misto” di Draghi.
Emerge dunque la debolezza del sistema politico italiano rispetto a quello dei principali Paesi del Vecchio continente che non necessitano di salvatori della patria selezionati, in questo caso dal presidente della Repubblica, al di fuori delle forze politiche presenti in Parlamento. È significativo, poi, rilevare che i quattro governi tecnici italiani si sono formati dopo la fine della cosiddetta “prima Repubblica” e dopo la fine dei grandi partiti di massa: il nostro Paese si è trovato di fronte a crisi economiche e sociali pesantissime, dagli anni postbellici alle tensioni ruvidissime degli anni Settanta ma la classe dirigente di quegli anni non ha mai pensato di “delegare” la gestione delle difficoltà a un tecnico non temendo, in primis, di perdere consensi nel momento in cui dovevano essere fatte scelte anche molto complicate.
Esiste, inoltre, un legame tra governi tecnici e debito pubblico. Appare chiaro infatti che gli esecutivi guidati da tecnici -Dini, Ciampi, Monti e ora Draghi- abbiano avuto come primo scopo quello di rendere il gigantesco debito pubblico italiano credibile sia agli occhi dei mercati sia, ormai soprattutto, all’Europa e alle sue istituzioni finanziarie. In estrema sintesi, la marcata dipendenza dello Stato italiano dalla capacità di trovare compratori per coprire un debito ormai indispensabile per finanziare la spesa corrente finisce per imporre, nei momenti più critici, la scelta di garanti, compiuta dai vari presidenti della Repubblica, più credibili rispetto alla classe politica in quanto tale come se, quando la situazione diventa seria, la politica italiana non risultasse in grado di gestirla e avesse bisogno di un tutore apolitico.
La malattia della politica, infine, passa attraverso un’ulteriore contraddizione, in realtà solo apparente. La scelta dei ministri e dei sottosegretari del governo Draghi è avvenuta rispettando in maniera ferrea il principio della rappresentanza delle correnti interne alle forze politiche; un principio applicato da tutti senza distinzioni e fondato sulla forza del capocorrente e dei suoi adepti, a cui sono state riservate le poltrone spartite. I tecnici, davvero, almeno sul piano politico sono serviti solo a narcotizzare ogni discussione sui temi, lasciando spazio senza limiti a questa operazione che ha nella storia italiana pochi precedenti per la nettezza con cui è stata condotta, ben oltre Cencelli.
Il paradosso, tuttavia, è rappresentato dal fatto che, proprio nel momento in cui si compie la spartizione correntizia perfetta, i partiti che l’hanno consumata rischiano di esplodere o sono già esplosi. In altre parole, forti dell’ombrello Draghi i capicorrente gestiscono praticamente tutti i posti di comando e di sottocomando ma questo non basta a dare stabilità al quadro politico. In passato, le correnti erano il modo per tenere uniti i partiti attraverso la gestione del potere. Adesso le correnti hanno preso il potere ma vogliono sfasciare lo strumento che gli ha permesso di fare ciò; una contraddizione palmare, solo apparente però. Ormai, l’unico vero elemento qualificante in termini politici è costituito proprio dal potere in quanto tale che non si lega a visioni, a programmi e appartenenze; è autosufficiente. Ma, in questo modo, diventa insicuro, debole, personale e quindi ogni struttura, compreso lo stesso partito, può costituire un pericolo. Meglio allora sfasciare anche quello per non avere ostacoli nell’affermazione delle rendite personalistiche di ogni feudatario, padrone di sé stesso e della propria poltrona.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento
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