Economia
La crisi che non c’è per i padroni del mondo
A differenza del pianeta, le multinazionali stanno bene. L’istantanea l’ha scattata il “Centro Nuovo Modello di Sviluppo”, che ha diffuso l’ultima ricerca sulla crescita del loro potere
A differenza del pianeta, le multinazionali stanno bene. Principio scontato, almeno fino a quando la realtà resterà così ossessivamente ripetitiva, e la fotografia così poco originale. L’istantanea l’ha scattata il “Centro Nuovo Modello di Sviluppo”, che ha diffuso l’ultima ricerca sulla crescita del potere delle multinazionali.
Giocatori, arbitri e giudici del grande gioco del capitalismo. 82mila giganti capaci di pesare per oltre un quarto sul prodotto lordo mondiale, fatturare -nel 2011- 74mila miliardi di dollari, poter contare su 810mila filiali. Strumenti di comando che hanno garantito alle prime 200 società di incrementare, rispetto al 1996, il proprio fatturato del 186%, i propri profitti del 360%. La classifica dei primi dieci soggetti traccia l’andamento del sistema economico: il declino delle imprese automobilistiche, l’emersione delle aziende petrolifere e della grande distribuzione. General Motor, dal 1996, perde 19 posizioni. Fanno peggio Ford e Mitsubishi. Al vertice giungono Royal Dutch Shell (petrolio), Exxon, e Wal-Mart (gdo), Bp, Sinopec (petrolifera, cinese).
Cambia la natura, cambiano i Paesi. E’ la Cina l’ospite d’onore nella classifica a seconda della ripartizione territoriale delle prime 200 multinazionali. Così come la Corea del Sud, la Malesia, Taiwan, la Thailandia, il Venezuela. Se il volante rimane statunitense -con 4 sulle prime 10, 29 sulle prime 100 e 57 sulle prime 200. Del fatturato totale di queste 200, che ammonta a 19mila miliardi di dollari, l’1% è indiano. Il nostro Paese è rappresentato dal diciassettesimo posto di Eni -153 miliardi di dollari di fatturato, 9,5 miliardi di dollari di profitti-, dal 45esimo della società d’investimento Exor, riconducibile alla famiglia Agnelli, con 117 miliardi di dollari di fatturato e 700 milioni di profitti, dal 52esimo di Enel -110 miliardi di fatturato, 5 miliardi di profitti-, fino a Unicredit Group e Intesa San Paolo. Dati 2011 alla mano, i settori che pesano di più sono quello petrolifero, seguito da finanza, assicurazioni, banche e -più staccato- elettronica (Apple nel 2011 risulta 55esima).
Fiume di denaro e di influenza che ha spinto Louis Brandels, giudice della Suprema Corte degli Stati Uniti, ad affermare che “possiamo avere la democrazia o possiamo avere la ricchezza concentrata nelle mani di pochi. Ma non possiamo avere entrambe le cose”. Dichiarazione facilmente dimostrabile: delle prime 100 economie mondiali, 65 sono multinazionali. Impero dominato da colossi finanziari come Barclays, Capital Group, Axa, Jp Morgan Chase, Ubs, Merrill Lynch, Goldman Sachs, Bank of America -tra i 25 soggetti che indirizzano investimenti del 30% delle prime 43mila multinazionali.
Politicamente rappresentate, “organizzate per evadere” (si pensi a Ikea, vedi Ae 101), distributrici di lauti stipendi (ai manager, sia chiaro: Marco Tronchetti Provera, di Pirelli & C., ha guadagnato nel 2011, tra bonus, azioni e “salario”, 22,2 milioni di dollari) e corposi dividendi. Sono le multinazionali, e stanno bene.