Esteri / Intervista
La fotografa che racconta Gaza. Vita e dolore sotto assedio
Photoreporter palestinese autodidatta, Fatima Shbair immortala i gesti quotidiani di chi vive a Gaza City. Le sue immagini, pubblicate sui social media, documentano le conseguenze dell’occupazione e il riscatto di un popolo
A Gaza pensare al futuro, da tempo, non è un’abitudine. Gaza è un giorno dopo l’altro, Gaza è giorno per giorno. Per me, come per tutti, il futuro a Gaza è un punto interrogativo ma ti convinci, alla fine, che ti sorprenderà per il meglio. Non per ottimismo ma per sopravvivere. Sai che in ogni momento può accadere qualcosa che cambia i tuoi piani, le tue aspettative. E lo accetterai. In fondo, serve a vivere e a sopravvivere”. Fatima Shbair ha 23 anni, che altrove potrebbero essere pochi ma a Gaza comportano una certa maturità necessaria. Fatima è una fotografa, il suo profilo Instagram racconta la vita di tutti i giorni a Gaza e i suoi scatti sono finiti in uno dei profili più seguiti nella regione: @everydaymiddleeast. Quello di Fatima (©fatima Shbair) interessa anche giornalisti e photo editor e Fatima si è messa in luce per un talento non comune.
“Vivo a Gaza City con la mia famiglia. È la mia città, ci sono nata. Sto studiando giornalismo all’università e intanto lavoro come photoreporter freelance. Vivo in una zona di conflitto, non l’ho scelto, è andata così. Fin dalla mia infanzia le immagini erano ovunque: la guerra, la Nakba (in arabo “catastrofe”, come i palestinesi chiamano la nascita dello Stato d’Israele e l’ondata di profughi che ne è seguita, ndr), i funerali dei martiri, le terre occupate. Terre che non ho mai visto, in Cisgiordania, ma che sono nel mio immaginario da tutta la vita. Quelle immagini sono io, mi dicevo. E speravo che un giorno sarei stata io a tenere in mano una macchina fotografica per raccontare le storie, la cultura e le tematiche sociali della mia gente, della mia città, della mia vita. Ho scelto questi temi perché per me è importante far sapere al mondo intero che la Palestina non è solo una zona di guerra ma un luogo pieno di vita. Volevo farlo e ci sono riuscita, ho iniziato nel 2016 e non credo che smetterò di farlo”, racconta Fatima.
Gaza è un posto unico al mondo. La Striscia ha una superficie di 360 chilometri quadrati per una popolazione di quasi due milioni di abitanti. Il 56% sono bambini; quasi l’80% delle famiglie vive sotto la soglia di povertà e il 74% sono rifugiati che vivono con gli aiuti dell’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’acqua potabile è compromessa dalla salinizzazione, si può pescare solo nelle poche miglia marine concesse da Israele e coltivare lontano dalle reti di recinzione. Gaza è una prigione, quando non diventa un inferno durante gli attacchi militari. Fatima racconta tutto il resto. Riesce molto bene in quel che fa, almeno a giudicare da quanto il suo profilo è seguito, dai contatti delle testate internazionali che mandano una email le commissionano foto o ne acquistano tra quelle pubblicate. Un paradosso della società digitale: sei chiusa dentro Gaza ma riesci a essere in contatto con il mondo intero senza vederlo. E il lavoro di Fatima diventa particolarmente utile in un periodo in cui i media sono sempre meno e hanno più difficoltà a realizzare reportage.
Oltre a studiare all’università, come si forma una fotografa autodidatta a Gaza? Quali sono i suoi modelli? Fatima non ha dubbi: “Ho sempre amato i fotografi dell’agenzia Magnum. Li ho scoperti, e studiati, grazie a Internet. Sono stati i primi ad ispirarmi nella fotografia, come altri professionisti come David Alan Harvey, Alex Webb e Abbas Attar. Anche a Gaza ci sono grandi professionisti -tiene a precisare- fotografi veterani che ne hanno viste e raccontate di tutti i colori come Adel Al-Hana, Mohammad Al-Baba e Khalil Al-Hamra. Tocca alla mia generazione continuare a correre dei rischi per documentare. Altrimenti nessuno lo farà e temiamo che un giorno nessuno si ricordi più di noi. Insisto sulle persone comuni, sulle loro giornate che passano perché parlando con chi mi scrive mi rendo conto che per tanti Gaza è solo un destino di morte. È un posto pericoloso dove vivere ma io sono interessata a raccontare la vita. Quasi tutti raccontano la Gaza a lutto, io voglio raccontare la Gaza a colori anche nel dolore. Nonostante le difficoltà che affronta nel suo assedio, è piena di bellezza, di vita e di amore. Io racconto Gaza in tutte le sue stagioni”.
“Quasi tutti raccontano la Gaza a lutto, io voglio raccontare la Gaza a colori anche nel dolore. Nonostante la difficoltà che affronta nel suo assedio, è piena di vita e di amore”
Per un fotografo è sempre difficile indicare uno scatto particolare ma Fatima è sicura: “Mi viene in mente l’immagine della prima fotografia che ho scattato: una madre nel momento dell’addio al suo unico figlio di sette anni, ucciso durante un raid israeliano nel 2016. Molti mi chiedono come sia per una donna a Gaza fare la fotografa sul campo. Amo le persone, questo può riflettersi nei miei rapporti con loro quando fotografo, ricevo sempre una risposta positiva da parte loro perché il mio rapporto con chi fotografo è quotidiano. Non mi sentono come estranea, mi mettono a mio agio. In fondo condividiamo la stessa storia”. Nelle foto di Fatima il mare e l’orizzonte sono soggetti ricorrenti. “Trovo che il mare sia un luogo magico, di molte cose nascoste. La mia curiosità aumenta ogni volta che ci vado perché mi racconta mondi oltre l’orizzonte. E mi chiedo: un giorno potrò essere dall’altra parte del mare? Lo so è una domanda un po’ ridicola ma mi sembra che siamo sulla spiaggia di un’isola, isolata dal mondo in attesa che qualcuno ci permetta di navigare e di iniziare la vita”.
Un mondo che Fatima non può visitare. “Sono uscita solo una volta nella mia vita per andare in Egitto, nel 2017, per cinque giorni. Spero di poter viaggiare per tutto il mondo, incontrare le persone, ascoltare le loro storie, raccontare la mia. Fotografare i messaggi nascosti dei popoli e documentare il mondo in tempi di conflitti e di crisi, così come in tempi di pace e sicurezza. Tutti possano capire quanto sia brutta la guerra, se la conoscono”.
IL DIRITTO DI BOICOTTARE ISRAELE
La Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ha stabilito che punire i sostenitori di un boicottaggio pro-palestinese ai danni di Israele viola la libertà di espressione garantita dall’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Così hanno deciso all’unanimità i giudici di Strasburgo l’11 giugno 2020 nell’ambito di un ricorso avanzato da undici attivisti contro una sentenza emessa dalla Corte suprema francese nel 2015.
I fatti risalgono agli anni 2009-2010 quando i militanti del “Collectif Palestine 68”, aderendo alla campagna internazionale “Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni” (BDS – bdsitalia.org), hanno organizzato due azioni dimostrative in un supermercato di Illzach -cittadina francese nel dipartimento dell’Alto Reno nella regione del Grand Est-, invitando i clienti al boicottaggio dei prodotti israeliani e alla firma di una petizione che chiedeva all’esercizio commerciale di non vendere merce importata da Israele.
La campagna internazionale era nata il 9 luglio 2005 da un appello di alcune organizzazioni non governative palestinesi, un anno dopo il parere espresso dalla Corte Internazionale di Giustizia secondo cui “la costruzione del muro che Israele, potenza occupante, sta costruendo nel territorio palestinese occupato, anche all’interno e sui confini municipali di Gerusalemme Est, e il regime che gli è associato, sono contrari al diritto internazionale”.
Gi undici attivisti francesi sono stati perseguiti per il reato penale di “incitamento alla discriminazione economica” e dopo una prima assoluzione emanata in due sentenze dal tribunale di Mulhouse, la corte d’appello di Colmar ha annullato le decisioni precedenti dichiarando i manifestanti colpevoli, una sentenza confermata anche in sede di Cassazione. La Corte Ue ha invece difeso la libertà di espressione dei membri del collettivo, condannando la Francia a risarcire i ricorrenti. A cura di Manuela Valsecchi
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