Wto: il Doha Round finisce in frigorifero?
Per quelli di noi che hanno buona memoria, lo sguardo del Direttore della Wto Pascal Lamy dello scorso 24 luglio a Ginevra ricordava l’espressione dello stesso Lamy il 14 settembre 2003. Altri lidi, quelli assolati di Cancun rispetto a quelli temperati di Ginevra, altri ruoli, allora Commissario al Commercio dell’Unione Europea, oggi Direttore generale della Wto. Purtroppo (per lui) stesso mal di testa: fallimento della Conferenza Ministeriale nel 2003, congelamento a data da destinarsi del Doha Round oggi.
di Alberto Zoratti – [fair] e tradewatch www.faircoop.it
“Il Round non è morto, ma è tra la rianimazione ed il crematorio”, la didascalia al volto terreo di Lamy è del ministro indiano Kamal Nath, che non usa mezzi termini per descrivere il fallimento raggiunto dal cosiddetto G6 (Stati Uniti, Unione Europea, India, Brasile, Australia e Giappone) sul
rilancio del Doha Round, il ciclo di liberalizzazioni lanciato nel novembre 2001 a Doha, capitale del Qatar. L’oggetto del contendere era più d’uno: dalla riduzione dei sussidi agricoli, al pacchetto servizi all’apertura dei mercati ai prodotti tecnologici. In ogni caso, comunque la si voglia chiamare, stiamo parlando di liberalizzazioni spinte ed apertura dei mercati incontrollata.
Ma è stato l’accordo agricolo, oramai in stallo da anni, che ha dato fuoco alle polveri o, se vogliamo, ha spento la miccia. E la presunzione di poter gestire i destini della globalizzazione economica e commerciale riunendo i pochi che contano, magari coinvolgendo anche qualche economia emergente, e facendoli decidere alle spalle dei molti non invitati. Se ne parlerà forse
tra alcuni anni: il mancato accordo fa slittare il tutto oltre la fine dell’anno, non concedendo più tempo al Congresso Usa di poter analizzare l’eventuale accordo prima della scadenza del mandato negoziale concesso dal Congresso stesso all’Amministrazione Usa (metà del 2007), e avvicinandosi
pericolosamente alle elezioni francesi (con una Francia molto sensibile ai temi agricoli).
Ma nonostante i nomi siano spesso gli stessi, lo scenario internazionale è cambiato, anche se Unione Europea e Stati Uniti sembra non se ne rendano conto, e le cosiddette economie emergenti si dimostrano portatrici di interessi, capaci di pressione politica e intenzionate a far valere il loro
peso economico. Ma proprio su questo la Wto ha segnato il passo, facendo chiudere ancor prima che aprisse i battenti un Consiglio Generale già dato per disperso: l’inadeguatezza di capire i cambiamenti reali in atto, a cominciare dalla nascita nel 2003 del G20, gruppo informale che vedeva in prima fila proprio l’India ed il Brasile (assieme alla Cina), gli stessi attori siedono al tavolo che conta delle grandi potenze commerciali. Ma anche l’inadeguatezza di comprendere l’insostenibilità di un cammino di liberalizzazioni a tappe forzate, in un contesto chiamato multilaterale (con tutta la retorica che spesso ammanta la democraticità presunta delle decisioni), ma che nei fatti diventa plurilaterale, dove cioè pochi paesi membri si trovano per decidere sulle spalle dei rimanenti 140 paesi.
E adesso, con una Wto in crisi, quale sarà il futuro? Difficile dirlo, sicuramente interessante analizzarlo. C’è un rischio obiettivo di una messa in crisi dell’approccio multilaterale, diversi attori potrebbero essere più interessati a questo punto ad intese bilaterali (Usa – Messico o Unione
Europea – Costa d’Avorio) dove dimostrare tutto il loro peso, piuttosto che impegnarsi in defatiganti negoziati. D’altra parte si aprono spiragli importanti nel cercare di costruire una reale alternativa al sistema Wto, inadeguato e poco trasparente. Un ripensamento dell’intera governance internazionale, con una Wto ridimensionata ad organizzazione che gestisca scambi commerciali e tariffe lasciando perdere proprietà intellettuale (quindi farmaci e salute), servizi (quindi sanità ed istruzione), agricoltura (quindi sovranità alimentare), un’Organizzazione Internazionale del Lavoro con capacità di imporre direttive e non solo di redigerle e diffonderle, una FAO riformata e capace di analizzare ed affrontare i problemi della fame nel mondo.
Sogni? E’ probabile. Ma oggi come non mai i movimenti sociali e le reti contadine sono chiamati ad uno sforzo aggiuntivo: contribuire assieme alla costruzione di una reale e concreta alternativa, aprire vertenze territoriali e con i governi per imporre una nuova agenda politica.