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#VazaJato, il Watergate brasiliano che ha messo fuori gioco l’ex presidente Lula
Le chat private tra l’allora giudice Sergio Moro -oggi ministro della Giustizia nel governo di Jair Bolsonaro- e i procuratori dell’inchiesta “Lava Jato” a Curitiba, rivelate dal giornale d’inchiesta “The Intercept”, svelano la natura politica delle indagini e mettono in dubbio la legittimità della condanna a 14 anni a carico di Lula. Mentre il premio Pulitzer Glenn Greenwald, “responsabile” della fuga di notizie, è oggetto di minacce nel Paese
“Quattro giorni prima di presentare la denuncia contro Lula che in seguito l’ha portato a una condanna a 14 anni per corruzione, Deltan Dallagnol, coordinatore del pool dei procuratori dell’inchiesta Lava Jato a Curitiba, ha scritto all’ex giudice Sergio Moro mettendo in chiaro i suoi dubbi a riguardo la solidità delle accuse contro l’ex presidente brasiliano. Era incerto sul punto centrale dell’accusa: che Lula avesse ricevuto di fatto l’appartamento triplex sulla spiaggia di Guaruja dopo aver favorito l’appaltatore dell’OAS in contratti con Petrobras”. Rassicurato da Moro, il 14 settembre 2016, Dallagnol presentava il suo power point dove illustrava il caso di Lula e pronunciava la frase che rimarrà alla storia: “Non abbiamo prove, ma abbiamo convinzioni”.
Le conversazioni fanno parte degli archivi dei messaggi scambiati su Telegram, tra 2015 e 2018 tra Moro -attuale ministro della Giustizia- e i pool di procuratori. Sono stati resi pubblici attraverso una serie di reportage realizzati da The Intercept Brasil, quotidiano online di giornalismo investigativo guidato da Glenn Greenwald. Ex The Guardian, il giornalista statunitense ha vinto il premio Pulitzer per aver reso noto i documenti della US National Security Agency – NSA, di Edward Snowden, nel giugno 2013 (Altreconomia ha pubblicato nel maggio 2016 un suo articolo sul rovesciamento della ex presidente Dilma Rousseff).
I giornalisti di The Intercept hanno fatto sapere che questo è solo l’inizio della #VazaJato –soprannome dato all’inchiesta-. Nei messaggi messi in Rete si nota un rapporto di dipendenza tra Moro e i procuratori. L’ex giudice voleva avere il controllo della situazione. Il grado di intimità è tale che valutavano insieme le mosse successive. Un grado di dipendenza che mette in dubbio anche l’imparzialità del “magistrato eroe” e della “Lava Jato” stessa, l’inchiesta che scoperchiato il più grande caso di corruzione della storia del Paese.
Gli scambi di messaggi confermano ciò che tutti sospettavano, persino papa Francesco: e cioè che il processo a Lula fosse politico, per toglierlo dalla corsa presidenziale visto che aveva il 40% nei sondaggi e probabilmente sarebbe stato rieletto presidente del Brasile. Ma non bastava mettere in carcere l’ex presidente, era necessario impedire segretamente che lui rilasciasse un’intervista prima delle elezioni per paura che il professore Fernando Haddad, del Partito dei Lavoratori, in corsa al posto di Lula, crescesse nei sondaggi.
L’ex presidente ha sempre dichiarato: “Non cambio la mia libertà per la mia dignità”. Altreconomia, nel gennaio 2018, tre giorni prima della sentenza di appello che ha confermato la condanna a Lula, pubblicava un articolo intitolato “Lula e il futuro del Brasile” in cui metteva in luce le polemiche sul caso e i dubbi di alcune persone sulla neutralità di Moro.
Leggere i messaggi è come fare un tuffo nelle viscere di questo Paese così maltrattato: il Brasile è una fragile democrazia che sembra faticare a andare avanti. Dopo vent’anni di terribile dittatura militare e due processi di impeachment in regime democratico –all’ex presidente Fernando Collor di Mello e quello a Dilma Rousseff– le istituzioni non hanno mai avuto una considerazione tanto bassa dalla popolazione. Il malcontento si è visto nella elezione di Jair Bolsonaro alla presidenza del Brasile, il candidato della destra, un populista che odia le minoranze e disprezza il proprio popolo.
Ma torniamo alla vicenda #VazaJato. È il 16 marzo 2016 e Moro decide di rendere pubblica una telefonata, coperta da segreto dell’indagine, fra Lula e la Rousseff in cui questa propone di nominarlo ministro della Casa civile, proteggendolo da un possibile arresto. Il dialogo tra tra Moro e i procuratori è sorprendente. Dallagnol domanda se “la decisione di renderla pubblica è confermata?”. Moro risponde domandando quale sia “la posizione della procura federale?”. Dallagnol, secco, risponde che è “per pubblicarla”. Il 22 di quel mese, Moro preso dalle reazioni pubbliche scrive al procuratore: “Non rimpiango la revoca della segretezza. È stata la migliore decisione. Ma la reazione è pesante”. Con la diffusione di quelle conversazioni di Lula -che nulla avevano a che fare con l’inchiesta giudiziaria Lava Jato- Moro ha contribuito ad accendere la fiamma delle manifestazioni che culminarono con l’impeachment di Rousseff.
Il contenuto delle chat private pubblicate da The Intercept non è stato mai negato dagli interessati. Nel tentativo di squalificare la notizia e sminuire i fatti, Moro si è aggrappato al fatto che un hacker avrebbe invaso la memoria del suo cellulare lasciando intendere che la fonte dei giornalisti fosse un criminale. Tuttavia, rispettando l’articolo 5 della Costituzione del Brasile che garantisce la segretezza della fonte, i giornalisti non hanno detto assolutamente nulla in merito all’origine della fuga di notizie. La stampa “vicina” alla “Lava Jato” e al giudice “eroe” ha subito colto l’occasione per cercare di trasformare il più grande scandalo giudiziario in un reato di violazione della privacy. Ma sembra che questa volta la manipolazione non abbia funzionato. La scossa è stata così grande che alcuni importanti giornali hanno chiaramente abbandonato Moro e i procuratori. O Estado de S. Paolo ha pubblicato un editoriale nel quale chiede chiaramente che Moro si dimetta e che i pm rinuncino alle indagini. “Il ministro (ex giudice) e i pubblici ministeri coinvolti in questo scandalo farebbero bene, il primo a rassegnare le dimissioni e gli altri ad allontanarsi dalla task force”.
Sembra che Moro sia in svantaggio anche nella battaglia digitale. Secondo Bites, una delle aziende più autorevoli nelle analisi dei dati sui social network, la Hashtag #vazajato ha avuto 255.700 post, rispetto ai 36.200 #Euapoioalavajato. Antonio Carlos de Almeida Castro, Kakay, uno dei più importanti avvocati penalisti del Paese, ha espresso in una nota ciò che la maggior parte dei giuristi ha detto dopo l’uscita delle inchieste di The Intercept: “È necessaria un’indagine approfondita per sapere se c’è un’organizzazione criminale che cerca di utilizzare la struttura del potere giudiziario a proprio vantaggio e per fini politici. Il Brasile ha bisogno e merita di sapere la verità. La magistratura è sotto sospetto”. Moro e i procuratori di Curitiba si sono sempre richiamati all’inchiesta Mani Pulite svoltasi in Italia. In varie occasioni hanno citato il lavoro fatto dagli omologhi italiani come esempio di lotta alla corruzione. Antonio Di Pietro, membro di quel pool, ha risposto alle domande di Altreconomia sul caso specifico. “Se i pm e il giudice collaborano al fine di cercare la verità e non inquinare le prove fanno il loro dovere. Ma nel caso specifico va accertato se quello che è stato fatto era per cercare la verità o creare una falsa accusa, allora sarebbe un atto illecito”.
La campagna contro Greenwald e lo stesso The Intercept è iniziata. Con una mossa poco astuta, alcuni politici del Partito Sociale Liberale -PSL, il partito di Bolsonaro- hanno invitato il giornalista a comparire alla Camera per fornire chiarimenti sulle inchieste. L’opposizione ha votato a favore. Un deputato del partito Democratas – DEM, ha interrotto la votazione e dato degli imbecilli ai politici del PSL. “Siete imbecilli, così lui avrà spazio per parlare a tutto il Paese”. Cogliendo il messaggio, il PSL ha ritirato la richiesta e i deputati dell’opposizione non hanno fatto altro che sorridere.
Sono anche apparse compagne su Change.org chiedendo la deportazione di Greenwald. La situazione è così delicata che il sindacato dei giornalisti della Municipalità di Rio de Janeiro (SJPMRJ) e la Federazione nazionale dei giornalisti (Fenaj), hanno emesso una nota in difesa dell’interesse pubblico delle informazioni divulgate e a favore dell’integrità fisica di Glenn. Anche il marito di Glenn -il deputato David Miranda del Partito Socialismo e Libertà – PSOL- ha ricevuto delle minacce via email. Avrebbero assunto un cecchino per far saltare in aria la testa di sua madre -si legge-, sicari in grado di non lasciare indizi, citando il caso di Marielle Franco. La polizia federale è stata avvisata. Minacciare è l’unica opzione rimasta per gli hater. The Intercept Brasil è diventato uno dei principali attori nello scenario del giornalismo investigativo brasiliano e uno dei loro principi è: “Se non disturba nessuno allora non serve a nulla”. E da quello che si vede, The Intercept disturba tante persone.
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