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Opinioni

Uno Stato leggero. Ma forte allo stesso tempo

In nome del contenimento del debito pubblico, il governo Monti sta smantellando le amministrazioni perifieriche del Paese. È una distruzione del federalismo, che riporta l’Italia a prima del 1970. Ad un accentramento del potere a Roma, che avviene però mentre lo Stato si ritira dall’economia

Gli scandali della politica e la necessità di affrontare il gigantesco debito pubblico, non più finanziabile a costi sostenibili sui mercati, stanno provocando una drastica riduzione del perimetro della spesa pubblica e delle aree di intervento dello Stato.

Questo percorso è tracciato con raffiche di decreti dal governo tecnico che, proprio per sua sostanziale extraterritorialità rispetto alla politica dei partiti, esce rafforzato nella sua legittimità “popolare”, in origine legata all’investitura del presidente della Repubblica e dei mercati. Se lo Stato sociale costa troppo e non può più essere finanziato a debito perché l’Europa impone il pareggio di bilancio, divenuto vincolo costituzionale senza legge costituzionale, allora il governo dei tecnici può avviare le “riforme” per smantellarne alcuni pezzi. Se le entrate fiscali non bastano a ricostituire l’avanzo primario, allora il governo dei tecnici può abbandonare il federalismo in corso d’opera, trasformare l’Imu in un’imposta erariale e togliere agli enti locali qualsiasi traccia di autonomia finanziaria. Se poi la politica offre la peggiore prova di sé a partire dallo sperpero dei miliardari fondi di finanziamento dei gruppi regionali, allora i tecnici hanno gioco facile -sulla spinta di una inevitabile quanto fondata indignazione diffusa- a procedere con l’accetta per abbattere buona parte degli enti intermedi, dalle Province fino, addirittura, alle Regioni, con l’obiettivo di smontare la macchina degli sprechi.

L’esigenza improcrastinabile di ridurre il debito e la volontà di porre un argine al malaffare che si è palesato in una parte delle amministrazione pubbliche hanno indotto il premier Monti al concepimento di una serie di misure attraverso le quali non si cancellano solo le spese ma anche i soggetti istituzionali da cui venivano erogate. Nel giro di pochissimi mesi è sparita ogni discussione in merito al federalismo come strumento di responsabilizzazione delle amministrazioni periferiche e si è proceduto a ripensare la struttura dello Stato, tracciando un rigo di penna su gran parte delle Province e ora sulle Regioni. Nel clima infuocato delle inchieste giudiziarie si è avviata una improvvisa marcia indietro rispetto al dibattito amministrativo degli ultimi quindici anni, che ha coinvolto in primis la riforma del Titolo V della Costituzione, accusata di aver fatto lievitare i costi complessivi della macchina pubblica e di aver attribuito agli enti intermedi prerogative normative destinate e far lievitare i costi impropri della politica. 


La spesa degli enti locali è arrivata a 240 miliardi di euro e la sua copertura dipende dalle entrate locali per soli 100 miliardi; piuttosto che correggere questa asimmetria aumentando l’autonomia degli stessi enti locali, gli scandali e l’affanno del debito statale spingono nella direzione del deciso abbattimento di tale spesa colpendo insieme agli sprechi il mantenimento in vita del decentramento amministrativo. Si assiste così ad una sorta di paradosso per cui, mentre da un lato si compie una repentina ritirata della sfera di interferenza dello Stato, impegnato nell’abbattere la propria spesa, e si avvia, almeno sulla carta, una stagione di semplificazioni, di cessioni di quote di società e di patrimonio pubblico, dall’altro lo smantellamento degli enti intermedi e di molte amministrazioni pubbliche genera un deciso rafforzamento del centralismo statuale. In altre parole stiamo assistendo al definirsi di uno Stato più leggero ma al tempo stesso più centralistico, più forte nelle sue prerogative rispetto ad ogni ipotesi di trasferimento dei poteri; uno Stato senza Province, quasi senza Regioni e con Comuni privi di risorse.

Si tratta di un’immagine molto simile a quella dell’Italia precedente al 1970, alla nascita delle Regioni appunto, dove il potere pubblico era decisamente concentrato a Roma e qui venivano prese tutte le decisioni relative alla vita politica e sociale del Paese. Oggi, a differenza di quella fase, però non esistono più i grandi partiti in grado di svolgere, come avveniva allora almeno in parte, le funzioni delle rappresentanza sociale e delle istanze decentrate. Non esistono neppure più le risorse pubbliche per mantenere in vita una spesa sociale in espansione costante e un complesso di interventi di politica industriale tipici dello “Stato imprenditore”; oggi lo Stato decide dove tagliare e non dove investire. In queste condizioni il rischio è quello di un eccessivo potere regolativo affidato ad un esecutivo che proprio per la sua natura apolitica tende a non rispondere a nessuno e a fare cassa utilizzando, in realtà con buone motivazioni, anche la crisi della politica. Ma un simile Stato, centralistico e con la prerogativa di stabilire quali gruppi sociali colpire di meno e quali priorità sostenere, potrebbe passare, nella totale sfiducia verso la politica, dalle mani dei tecnici a nuove forme di leaderismo populista, per le quali l’antipolitica si traduce nello smantellamento di ampi spezzoni delle istituzioni surrogate da un capo forte, legittimato solo dal voto e da forme plebiscitarie di apparente democrazia diretta.

* Università di Pisa

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