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Ambiente / Intervista

“Underneath Vajont”, una storia di scienza e umanità a 60 anni dalla tragedia

© Underneath Vajont - Genau

La frana che la sera del 9 ottobre 1963 riempì l’invaso costruito lungo il torrente Vajont e spazzò via Longarone continua a essere oggetto di studi. Lo sa bene Roberto Francese, professore di Geofisica applicata all’Università di Parma e protagonista del documentario “Underneath Vajont”. Il racconto di un decennio di attività di ricerca

A sessant’anni dalla tragedia, la frana che riempì l’invaso costruito lungo il torrente Vajont la sera del 9 ottobre 1963, provocando un’onda di piena che scendendo nella valle del Piave causò distruzione e quasi 2mila morti, è ancora un’osservata speciale. Oggetto di studio per geologi e geofisici che, usando strumenti moderni, cercano “di rispondere a una serie di questioni rimaste aperte, che riguardano il volume, la grande velocità raggiunta, il fatto che il corpo di frana non si sia frammentato, l’enorme onda che ha sollevato”, come racconta Roberto Francese, professore di Geofisica applicata all’Università di Parma e protagonista del documentario “Underneath Vajont”, scritto da Fabio Angeli e Federico Fischanger e prodotto da Genau per l’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale (Ogs) con il contributo della Regione Friuli-Venezia Giulia.

Prima di parlare del documentario, che Altreconomia ha potuto vedere in anteprima, una piccola sintesi di quanto accadde alle 22.39 di quel 9 ottobre, dal sito del CNR: “Un volume di roccia di circa 270 milioni di metri cubi, scivolò ad una velocità di circa 70-90 km/h e, in una ventina di secondi l’intera massa raggiunse il lago. L’impatto con l’acqua generò un’onda di circa 50 milioni di metri cubi”: una parte lambì le abitazioni di Casso (Erto e Casso, PN), un’altra distrusse alcune frazioni di Erto e Casso, e un’altra ancora scavalcò la diga, precipitando nella stretta valle sottostante. “In pochi minuti circa 25 milioni di metri cubi di acqua e detriti raggiunsero Longarone e la spazzarono via con la quasi totalità dei suoi abitanti”.

Francese, com’è nato il suo lavoro sul Vajont?
RF Sono padovano. Nel 2010, quando lavoravo a Trieste per l’Istituto nazionale di Oceanografia e di Geofisica sperimentale, l’Università della mia città, in vista della ricorrenza dei 50 anni, avviò un nuovo progetto di ricerca per rispondere ad alcune questioni aperte legate alla caratterizzazione del corpo di frana: abbiamo iniziato a studiarlo, per capire com’è era fatto in profondità, qual era il piano d’appoggio, vedere quanto era fratturato. Doveva durare il tempo di qualche mese di campagna, finire con la stesura di un rapporto tecnico, ma il Vajont è diventato una calamita, siamo stati assorbiti dalla storia. Abbiamo scoperto gli atti del processo, li abbiamo digitalizzati. La ricerca è diventata mezza scientifica e mezza storica. Si sono fuse insieme.

Perché si continuava e si continua a studiare la frana del Vajont?
RF Tra quelle cadute in epoca storia è senz’altro una delle più grandi mai registrate. In più ha avuto un esito disastroso: se fosse accaduta in una zona poco antropizzata, come l’Himalaya, senz’altro sarebbe stata studiata molto meno. Tanti hanno cercato di spiegarla. Quelli che si sono avvicinati di più alla “verità” sono stati due americani, che alla metà degli anni Ottanta avevano un problema simile con un serbatoio idroelettrico in costruzione dove c’era una frana molto importante. Hanno teorizzato la presenza di livelli argillosi, su cui l’enorme massa del Monte Toc ha potuto scivolare tutta insieme e così velocemente. Hanno descritto la cinematica della frana, che -lo ricordo- non è venuta giù improvvisamente. Scoperta nel 1959, è stata studiata tre anni, analizzando anche i micro-sismi, i movimenti della roccia in funzione dell’innalzamento progressivo della quota d’acqua nel serbatoio.

La diga di Longarone © Underneath Vajont – Genau

Tra gli atti che avete digitalizzato e che vengono mostrati nel documentario c’è anche il tracciato del sismografo del vicino serbatoio di Pieve di Cadore. Che cosa offre alla ricerca della verità? 
RF Oggi tutte le registrazioni sono digitali. Il pennino che corre su un rullo è la restituzione grafica di un segnale digitale, che misura un numero frazionato in unità di tempo, l’oscillazione del terreno in ogni frazione di secondo: questi dati permettono di fare analisi. Nel caso del Vajont, questo ha permesso di applicare tecniche moderne di analisi dei segnali. Dentro quel tracciato, c’è una storia importante, che è quella del “durante”, ed è importante poterla studiare insieme al primo e al dopo. Oltre a Pieve di Cadore, il terremoto è stato rilevato dagli strumenti anche a Pavia, a Roma, a Trieste, a Stoccarda.

Perché è così importante capire il movimento della frana?
RF Per evitare che si ripetano episodi simili, come nel caso degli Stati Uniti, dove hanno affrontato il rischio stabilizzando la frana con una serie di profonde gallerie di drenaggio. La conoscenza dà sempre un enorme vantaggio. A livello tecnico, poi, lo stesso strumento lo puoi usare anche in altri contesti come ad esempio per un argine. La conoscenza genera valore, anche in campi non necessariamente legati a quello in cui quella conoscenza è stata acquisita. Nel caso del Vajont, dalla massa franata è dipesa la potenza dell’onda, legata a quanta acqua viene spostata. L’acqua venne spinta fino a 180 metri sopra la diga, a cui si aggiungano i 250 metri dell’invaso, e questo punto quando ricade nella valle del Vajont ha un’energia enorme e porta con sé anche detriti e un sacco di oggetti. Un fluido con densità maggiore ha più capacità distruttiva. La nostra ricerca continua a piccoli passi: lo spessore del corpo di frana è mediamente di 200 metri. Il piano di scivolamento è molto profondo. Abbiamo sempre utilizzato tecnologie nuove, più avanzate, per scendere più in profondità, con un susseguirsi di esperimenti che rappresentano tasselli aggiunti alla conoscenza.

Una vista di Erto (PN) © Underneath Vajont – Genau

Le campagne di ricerca sul Vajont coinvolgono molti giovani studenti. In che modo si approcciano a questa vicenda?
RF Facciamo in modo che studino un po’ la storia, perché tutte le cose che riguardano il Vajont sono molto delicate, arrivando a Erto (PN) o a Casso (PN) o a Longarone (BL) è facile ancora oggi urtare sensibilità. Lavoreranno su un caso scientifico che ha avuto un esito molto tragico. Per questo è importante che incontrino i testimoni, un approccio divulgativo che estendiamo anche ai ragazzi delle scuole superiori. Le campagne sono molto impegnative, in un ambiente non facile, in mezzo al bosco e su pendii molto scoscesi. Sul Vajont gli studenti imparano il rigore: la necessità di essere precisi con tutte le fasi delle misure, di non essere affrettati. Questo dovrebbe essere poi l’essenza del “metodo scientifico”.

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