Un’altra “azienda”, il modello funziona – Ae 47
Numero 47, febbraio 2004S'intitola “Crisi di crescita” e mette al centro l'economia solidale realizzata dal fair trade in Italia. Raccontandone i risultati e le sfide future. L'intervista agli autori, Lorenzo Guadagnucci e Fabio Gavelli Fabio e Lorenzo. Qualche volta hai…
Numero 47, febbraio 2004
S'intitola “Crisi di crescita” e mette al centro l'economia solidale realizzata dal fair trade in Italia. Raccontandone i risultati e le sfide future. L'intervista agli autori, Lorenzo Guadagnucci e Fabio Gavelli
Fabio e Lorenzo. Qualche volta hai l'impressione che parlare di consumo critico con loro sia come vendere il ghiaccio agli esquimesi. Rigorosi e pazienti, appartengono alla razza di quelli che si confondono con la tappezzeria, ma poi, quando capita, non li schiodi dalla verità neanche a forza di manganelli. Come Lorenzo, la notte della Diaz, a Genova. Giornalisti, ti riconciliano con la professione.
Il primo libro che fotografa il commercio equo e solidale in Italia è loro, fresco di stampa. Un'inchiesta documentata, un anno di lavoro condotto a quattro mani girando mezza Italia, a conoscere importatori, leggere bilanci, intervistare i padri fondatori, visitare botteghe. Molti altri, al loro posto, avrebbero fatto un po' di telefonate, qualche incontro, raccattato un po' di documentazione su Internet e avrebbero scritto il solito libro buono per prendere polvere sui nostri scaffali.
Oltretutto con le parole ci sanno fare e molti capitoli si leggono d'un fiato, come le storie sul vicino di casa che però ti svelano particolari che non avevi colto, e magari vizi e virtù insospettati.
Un viaggio dunque dentro il commercio equo, dentro la casa del vicino (il commercio equo è probabilmente il vostro vicino di casa se state leggendo questo articolo o siete abbonati di Altreconomia) con gli occhi di un amico.
Allora perché quel titolo, “Crisi di crescita”, che pare prefigurare scenari inquietanti?
“Il titolo l'ha scelto l'editore” ti spiegano.
E non c'è stato nulla da fare. Titolo furbo, aggiungiamo noi, dopo che lo stesso editore, Feltrinelli, era uscito un anno fa con un altro libro sul commercio equo (“Max Havelaar, l'avventura del commercio equo e solidale”), più dedicato all'Europa per la verità.
Fabio e Lorenzo sono amici. Hanno scritto questo libro facendo insieme molti dei viaggi per conoscere e intervistare i protagonisti, discutendo i risultati che man mano andavano accumulandosi, confrontandosi sulla struttura di ogni singolo capitolo. Non se ne avranno a male se, da qui in avanti, virgoletteremo le loro risposte senza attribuirle all'uno o all'altro. Chi li conosce distinguerà forse lo stile di ognuno. Chi non li conosce avrà l'opportunità di incontrarli in una delle tante presentazioni che il libro genererà nelle librerie Feltrinelli e nelle botteghe (il 18 febbraio a Milano, e poi a seguire nelle altre librerie Feltrinelli: il 21 a Firenze con Ugo Biggeri, Alessandro Santoro e Raffaele Palumbo alle 17,30 in via Cerratani; il 25 a Roma, il 26 a Napoli e il 3 marzo a Bari).!!pagebreak!!
Allora, dicevamo di questo titolo…
“Sì, inaspettato, anche se ovviamente ha un fondamento: nel libro in più parti si parla di crisi di crescita a proposito del commercio equo italiano. I numeri, i volumi di vendita delle botteghe e degli importatori sono cresciuti in questi anni a ritmi vertiginosi e questo li costringe a un salto di qualità sul piano organizzativo e strutturale: la sfida che hanno davanti è quella di una professionalizzazione, devono affrontare un 'tabù', si trovano cioè a pensarsi e a strutturarsi come 'aziende'. Non è un salto da poco rispetto all'atto di nascita originario che, in larga parte, era basato sul volontariato; il cambiamento genera tensioni. Ci sarà per esempio da vedere come il maggiore importatore italiano, Ctm Altromercato, affronterà questa sfida: le sue dimensioni sono già quelle di una media azienda nazionale eppure le sue logiche sono nettamente diverse da quelle del sistema delle imprese profit, con una grande partecipazione e democrazia di base sulle scelte importanti. L'impressione è che siamo di fronte a un nuovo modo di fare impresa, ricca di tensione ideale”.
Come è strutturato il libro?
“Il libro parte dalla valutazione degli effetti del commercio equo nel Sud del mondo, poi racconta come si è strutturato nel Nord, il ruolo delle botteghe e degli importatori, descrive la situazione attuale ma sempre con un'apertura sul futuro: racconta il presente per cercare di capire che cosa potrebbe succedere nel futuro, quali nuove strade potrebbero aprirsi, quali le potenzialità e gli ostacoli”.
Quello del commercio equo è un mondo che, in parte, conoscevate già. Quale è stata la sorpresa maggiore?
“Forse non immaginavamo che ci fosse così tanta gente che guardava al commercio equo come a una possibilità di lavoro. Avevamo un po' il ricordo di persone di buona volontà che si davano da fare per vendere qualche prodotto. In realtà un progetto di commercio equo è complesso da organizzare e da gestire, occorrono capacità e doti non comuni e la buona notizia è che il settore può contare su un'alta professionalità”.
Quali i punti di debolezza che sono emersi?
“La debolezza sta proprio nei rischi che sono legati a questo momento di 'crisi di crescita' e questo riguarda innanzitutto le centrali di importazione: occorreranno scelte importanti e non sempre facili, non si intravede ancora il successivo salto di qualità e di quantità dopo i buoni risultati di questi anni. Il potenziale di crescita è molto grande: potrebbero nascere nuove centrali ma la sfida vera, il punto chiave riguarderà alcune grandi famiglie di prodotti: le migliaia di referenze sugli scaffali del commercio equo possono essere ricondotte ad alcuni prodotti alimentari e all'artigianato da regalo; bisognerà vedere se si faranno largo anche alcuni prodotti di massa, per esempio legati all'abbigliamento. Ma questo significa confrontarsi con produzioni semi-industriali e il che pone problemi nuovi; alcuni tentativi sono in corso e nel libro vengono raccontati. Inoltre c'è un punto che può essere letto sia come debolezza sia come forza: dalla nostra indagine emerge chiaramente che non c'è un unico modo di concepire il commercio equo in Italia, c'è quello delle centrali, quello di Transfair, quello delle singole botteghe che hanno magari i loro progetti di importazione.
Su questo, il tasso di polemica e di litigiosità è ancora alto: ne emergono divergenze tignose, risentite, che forse frenano la possibilità di studiare strategie comuni, di pensare più in grande. Così siamo ancora lontani dalla capacità di stabilire alleanze, rapporti politico-economici con altri comparti vicini, come per esempio quello del biologico e quello delle organizzazioni non governative”.
A proposito di alleanze: qual è l'interesse del mondo politico e istituzionale per il commercio equo?
“L'impressione è che qualche interesse si stia risvegliando. Le mozioni a livello di parlamento, consigli regionali o comunali in questi anni si sono moltiplicate. D'altra parte l'economia classica non manda segnali troppo rassicuranti. Quasi tutte le forze politiche sono oggi lontane dall'immaginare un'economia non votata al profitto, ma l'attenzione per le economie alternative cresce e così la frequentazione dei Forum sociali, a partire da Porto Alegre.
E certamente, per i politici che vi hanno partecipato, il commercio equo è stato tra le alternative più concrete che hanno incontrato”.!!pagebreak!!
Torniamo all'Italia. Quali sono i punti di debolezza a livello di botteghe?
“Esistono dei vuoti territoriali, regioni che potrebbero dare buoni risultati e che invece languono; la Toscana potrebbe per esempio vantare consumi al pari della Lombardia e del Veneto e invece non è così. Ma anche altre zone, ad una analisi provincia per provincia, mostrano dei buchi inspiegabili. Sarebbe forse utile un organismo generale in grado di mettere a disposizione in queste aree risorse economiche ed esperienze, aiutare per esempio la nascita di cooperative. Alla fine ne beneficerebbero tutti. E poi c'è il Sud, che è largamente scoperto, al di là di ogni divario socio-economico”.
Ma oggi esistono i margini di redditività che giustificano questi sforzi?
“Sì. È significativo che tutte le botteghe che in questi anni si sono spostate dalle zone periferiche al centro delle città abbiano aumento fatturati e numero di clienti. Significa che molte botteghe sono ancora troppo poco visibili, patiscono per la loro cattiva dislocazione, e che gli spazi per crescere sono ancora molto grandi”.
Domanda conclusiva: dall'indagine che avete condotto possiamo dire che il commercio equo rappresenta il primo nucleo di un'economia “altra”, oppure noi tutti ci stiamo illudendo?
“Sì di questo siamo assolutamente certi. E la sfida per il futuro è proprio questa: dimostrare che si può fare impresa, mercato solidale già ora, non tra mille anni, e coagulare intorno a sé una serie di energie e di forze nuove. Ma bisogna anche imparare a ragionare in prospettive storiche: i fenomeni economici, anche in tempo di globalizzazione, hanno bisogno di tempo per produrre cambiamenti significativi. I movimenti hanno fretta ma, in fondo, Seattle è accaduto solo quattro anni fa, e da allora molto è cambiato”.