Esteri / Varie
Un rifugio in fondo al Messico
Repotage da Tenosique, nello stato del Tabasco, dove sorge “La 72”, un porto sicuro lungo il pericoloso viaggio di migliaia di migranti diretti negli Usa. Da lì, il 20 novembre, parte la "Caravana de Madres centroamericanas buscando a sus migrantes desaparecidos", che vedrà una Carovana italiana gemella muovere da Lampedusa fino a Ventimiglia a partire dal 23 novembre —
Se cercate il confine meridionale degli Stati Uniti d’America, dovrete raggiungere El Ceibo, nello Stato messicano di Tabasco. Questa è una delle porte d’ingresso nell’America del Nord, come Lampedusa lo è per l’Europa. Qui, ogni giorno, “sbarcano” decine di migranti centroamericani, dopo aver attraversato su pick-up o bus sgangherati la foresta del Petén, in Guatemala.
Chi oltrepassa la frontiera deve poi raggiungere Tenosique, una cittadina a cinquanta chilometri, per trovare un porto sicuro. Si chiama “La 72”, ed è un hogar e un refugio per migranti. La seconda parola non ha bisogno di traduzione, mentre la prima significa “casa” nell’accezione di “caminetto”, “focolare”, e serve a rendere l’idea di un’accoglienza vera, di uno spazio dove riparare e sentirsi protetti.
A gestire La 72, da quand’è stata fondata nel 2011, sono i religiosi della Provincia franciscana “San Felipe de Jesús”. Il direttore si chiama Tomás González Castillo, ma in Messico è conosciuto come “Fray Tormenta”. Quando è arrivato a Tenosique, nel 2010, l’hogar non c’era ancora, e i migranti erano ospitati nella casa parrocchiale: “I migranti avevano la possibilità di trattenersi per un massimo di tre giorni, e non c’era spazio per donne né bambini. Ma già allora arrivavano tra le 15 e le 20 persone al giorno, e le condizioni che dovevamo imporre loro non rispondevano più alla realtà che vivevamo” racconta Fray Tomás.
Oggi sono almeno 50 i migranti che ogni giorno entrano dal cancello dell’albergue, ma come accade in Italia sono pochi quelli che vogliono restare in Messico: per i più, Tenosique è solo una tappa del viaggio verso Nord, verso gli Usa. Un itinerario pericoloso, il loro: il 23 agosto del 2010, a San Fernando, nello Stato di Tamaulipas, nel Nord del Messico, avvenne un massacro nei confronti di migranti in transito. In 72 furono assassinati, e così -spiega Fray Tomás- “dovemmo scegliere se continuare ad operare con un progetto di ‘semplice’ accoglienza, o schierarci, assumere la difesa di queste persone”.
È quello che i francescani di Tenosique hanno fatto costruendo il nuovo albergue, subito fuori dalla cittadina e a poche centinaia di metri dalla stazione ferroviaria, cioè ai due binari abbandonati a se stessi dove non fermano più treni passeggeri ma solo quello conosciuto come “la Bestia”. È il treno merci che per i migranti rappresenta allo stesso tempo una speranza e un incubo. Tenosique, la frontera olvidada, dimenticata, come s’intitola un rapporto dedicato ai diritti umani in città redatto dalla rete “Todos los derechos para todos”, è il punto più vicino al Guatemala toccato dalla ferrovia.
Quando il treno sta entrando in stazione rallenta, mi raccontano. Lo stridore sui binari allerta i migranti in attesa a “La 72”, che escono veloci dal refugio per salire sui tetti sperando di raggiungere gli Stati Uniti d’America. Sanno che il loro viaggio non sarà tranquillo: sulla parete dell’albergue, all’ingresso della struttura, un murales raffigura tutto il Messico, indicando loro le case per migranti sparse in tutto il Paese, ma anche i “punti critici” lungo l’itinerario (ruta) verso gli Stati Uniti d’America, quelli in cui potrebbero subire un assalto o addirittura il sequestro, e la richiesta del “pedaggio”, 100 dollari per tratta. La divisione “politica” del Messico non è quella tradizionale, con i 31 Stati e il Distretto federale che formano il Paese, perché sono rappresentate le zone d’influenza dei diversi cartelli e gruppi criminali. I migranti sanno che il loro viaggio potrebbe non concludersi mai, ma è l’unico che possono permettersi: se salissero su un autobus di linea, potrebbero arrivare in 3 ore a Villahermosa, capitale del Tabasco, e da lì -comodamente- in 12 ore raggiungere Città del Messico, nel centro del Paese, per poi continuare verso il Nord. È il viaggio che ho fatto anch’io per raggiungere Tenosique, solo che il visto sul mio passaporto è un lasciapassare di fronte ai controlli dell’Instituto Nacional de Migracion. Loro, invece, verrebbero fermati e rispediti alla frontiera.
Nei giorni di fine luglio 2014 in cui ho visitato “La 72” i quotidiani messicani parlavano del “Programa Frontera Sur”, lanciato dal presidente Enrique Peña Nieto: secondo il governo messicano, ha l’obiettivo di salvaguardare i diritti umani dei migranti che entrano o passano per il Messico, anche impedendo loro di salire sul treno, mentre Fray Tomás è convinto che “il nostro Paese sia costretto, come sempre, a fare il lavoro sporco per conto degli Stati Uniti d’America”.
Il 12 agosto, tramite la propria pagina Facebook, “La 72” ha denunciato l’operazione con la quale la Polizia federale e l’Instituto Nacional de Migración (INM) hanno cercato di impedire ai migranti di prendere posto sul treno. E due settimane dopo, il 25 agosto, “la migra”, com’è conosciuta la forza che controlla le frontiere del Paese, ha impedito agli attivisti de “La 72” di realizzare un’attività lungo la linea di frontiera con il Guatemala. Era programmata da tempo, e Mizar Martin, una ventenne che da 2 anni segue le attività di comunicazione e volontariato de La 72, me l’aveva descritta così: “La nostra intenzione è di realizzare un’azione in continuità con la visita pastorale a Lampedusa di Papa Francesco”. A El Ceibo c’era anche il vescovo di Tabasco, Monsignor Gerardo De Jesús Rojas López, cui è stato impedito di celebrare una messa in suffragio delle vittime del massacro del 2010 nello Stato di Tamaulipas, cui “La 72” deve il suo nome. Nei giorni successivi, il vescovo ha ricevuto una lettera di solidarietà da Città del Vaticano, dal Presidente del Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti, il cardinale Antonio Maria Vegliò.
Secondo Ruben Figueroa, attivista del Movimento Migrante Mesoamericano (www.movimientomigrantemesoamericano.org), l’azione di Fray Tomás configura una nuova “teologia della migrazione, i cui simboli sono tre, la Bestia, lo zaino e i telefoni”, utilizzati dai migranti per comunicare ai propri cari le proprie condizioni di salute.
Figueroa, che è nato nello Stato di Tabasco, ha 31 anni, e da almeno cinque vive da mochilero, con la zaino in spalla, percorrendo in lungo e in largo le rotte dei migranti, tra El Salvador, l’Honduras, il Guatemala, il Nicaragua e il Sud del Messico. “A 16 anni sono stato migrante anch’io, ed ho vissuto per cinque anni in North Carolina” racconta. Una volta rientrato in famiglia, ha iniziato -con la madre- a dare accoglienza ai migranti che passavano. Poi, spiega, “ho deciso di impegnarmi di più a livello ‘regionale’, realizzando un lavoro sul campo, d’inchiesta e di accompagnamento”. Oggi La 72 è anche per lui un hogar, la casa cui tornare quando decide di fermarsi per qualche giorno. Qui, aggiunge, era stato per due anni, accompagnando il lavoro di Fray Tomás, fino a quando a luglio 2013 era stato costretto a lasciare il Messico e a rifugiarsi negli Stati Uniti d’America, dopo aver ricevuto ripetute minacce di morte: “Non ero al sicuro, anche se i giudici avevano dettato forme di protezione nei miei confronti”. Figueroa è tornato in Messico nel febbraio del 2014, in tempo per partecipare alla “Viacrucis migrante” promossa da La 72 durante la settimana santa, un’iniziativa che ha l’obiettivo di far conoscere “il cammino di terrore delle persone immigrate in Messico”. “Ciò che può succedere a noi, è niente rispetto a ciò cui vanno incontro. Per questo, a noi non interessa dar loro un piatto di cibo. Qui non trovano assistenzialismo, ma una ‘coperta’ che possa accompagnarli per tutto il percorso”.
Adesso Ruben sta lavorando all’organizzazione della decima Caravana de madres de migrantes desaparecidos, che dovrebbe partire a metà novembre (vedi box). Ogni anno sono circa 18mila i migranti vittime di sequestro, su un totale di circa 250mila persone che cercano di attraversare il Messico per raggiungere gli Stati Uniti d’America.
Come accade a Lampedusa, molti tra quelli che arrivano a Tenosique avrebbero però diritto a chiedere asilo politico: la maggior parte degli ospiti de “La 72” sono infatti honduregni, e l’Honduras -dopo il Colpo di Stato del 28 giugno 2009- è diventato il Paese più violento del Centro America. J. ha 18 anni e molta voglia di raccontarmi la sua storia: “Vengo dal dipartimento di Copan. Lavoravo come garzone in un rancho (fattoria, ndr). Un giorno, per caso, ho visto un gruppo di persone rapire un uomo. Quella sera gli stessi uomini sono arrivati a casa mia, chiedendo di me ai miei genitori, dicendo che volevano propormi un accordo. Mi ero nascosto a casa di uno dei miei fratelli, e il giorno dopo sono scappato”.
Perché un migrante ottenga lo status di rifugiato ci vogliono però tra i cinque e i sei mesi. “Attualmente -racconta Fray Tomás- ci sono almeno 25 casi di questo tipo al mese: noi li aiutiamo con tutte le questioni burocratiche”.
A tutti gli ospiti “La 72” garantisce tre pasti al giorno, alle 8, alle 14 e alle 19, un cambio di vestiti e un letto. Per tutta la durata della loro permanenza, i migranti non sono obbligati a restare all’interno dei cancelli. Le porte sono aperte dalle 6 del mattino alle dieci di sera, quando si spengono le luci e si va a dormire. È Fray Aurelio, anche lui francescano come Fray Tomás, a coordinare il funzionamento dell’albergue: “Questa è casa vostra, dovete curarla, mantenerla, dovete migliorarla. Se siamo qua per trasformare questo mondo, dobbiamo cominciare dalla nostra casa” spiega a uomini, donne, ragazzi e bambini in fila per la cena. Tutte le attività, invece, sono gestite da volontari: Fray Guillermo, ad esempio, è un giovane padre passionista, infermiere, che fa entrare nel suo piccolo ambulatorio tutti i migranti, appena entrano all’albergue: misura loro la pressione, cura le vesciche, capisce se hanno dolori muscolari. Molti, infatti, arrivano a piedi da El Ceibo.
Per garantire un tetto dignitoso a tutti, La 72 è disseminata di piccoli cantieri: oltre il campo di basket è in costruzione un edificio di due piani, che sarà l’alloggio maschile (oggi gli ospiti dormono nella piccola Chiesa, che durante la notte si trasforma in dormitorio). Vicino all’ingresso, si sta elevando al secondo piano anche l’edificio che ospita l’accettazione e gli uffici degli operatori de “La 72”: accoglierà i volontari della struttura. Nel 2012, il “rafforzamento infrastrutturale” è stato supportato anche dalla Ong italiana Soleterre, che ha garantito risorse destinate alla illuminazione interna della casa, all’installazione delle telecamere di sicurezza e al completamento del muro perimetrale lungo i 3mila metri quadrati di superficie del Rifugio.
Il supporto è continuato garantendo la partecipazione di due membri de “La 72” a un laboratorio di analisi del rischio realizzato dagli esperti di Protection International. La formazione, realizzata nel 2013 a Oaxaca (Messico), ha coinvolto 30 difensori dei diritti umani dei migranti (per lo più coordinatori e gestori di Rifugi) da tutto il Paese, e -spiega la Ong- “era finalizzata ad analizzare il contesto in cui operano i difensori, le minacce ed i rischi che affrontano quotidianamente, gli incidenti di sicurezza che hanno registrato fino a quel momento e definire misure di protezione adeguate” (le info sul progetto sono sul sito www.sinnombre.org).
Tra gli strumenti di denuncia e di tutela che “La 72” usa con continutià, oltre alla pagina web (www.la72.org) ci sono anche Facebook –www.facebook.com/la72tenosique– e Twitter –@La72Tenosique-. “In questo modo, in tutto il mondo possono verificare ciò che accade: raccogliamo documentazione, anche fotografica, per dar visibilità a come funziona la politica migratoria messicana, e creare una base di dati per denunce circostanziate” mi racconta Mizar Martin. La pagina Facebook diventa anche una finestra per i migranti, che le chiedono di essere fotografati e che i loro ritratti siano postati in rete. Nel ventunesimo secolo è un modo per dire ai loro cari, in Centro America, “aquí estoy”, “sono vivo, fin qui tutto bene”. —
Le porte sul retro
L’Italia come il Messico. E Lampedusa, come Tenosique, luogo di frontiera ed approdo. L’isola del Mar Mediterraneo è stata scelta come punto di partenza -il prossimo 24 novembre- della Carovana italiana per i diritti dei migranti, per la dignità e la giustizia. Promossa dal Tavolo torinese per le madri di Ciudad Juarez, la città dei femminicidi al confine tra Messico è Stati Uniti d’America, è un’iniziativa in solidarietà con la “Caravana de Madres centroamericanas buscando a sus migrantes desaparecidos” che si terrà negli stessi giorni tra il Centro America e il Messico.
La carovana italiana -cui hanno aderito, tra gli altri, il ACMOS, il Centro studi Sereno Regis e Soleterre- attraverserà il Paese fino all’8 dicembre, toccando i luoghi della tragedia migrante nel Sud Italia (Vittoria, Pozzallo, Mineo, Rosarno, Nardò, Rignano Garganico, la Terra dei fuochi) e le principali città italiane (Roma, Milano, Torino), con l’obiettivo -si legge nell’appello- di “costruire un ponte simbolico tra le sofferenze, ma soprattutto tra le speranze”. Info su carovanemigranti.org/la-carovana/