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Tutti figli di un embargo – Ae 37

Numero 37, marzo 2003Migliaia di vittime ogni mese per le sanzioni economiche. Ma la popolazione cresce: per molti Omar morti di guerra e di ristrettezze, tanti altri sono nati. Non nel migliore dei mondi, né dei modiLe guerre dal cielo…

Tratto da Altreconomia 37 — Marzo 2003

Numero 37, marzo 2003

Migliaia di vittime ogni mese per le sanzioni economiche. Ma la popolazione cresce: per molti Omar morti di guerra e di ristrettezze, tanti altri sono nati. Non nel migliore dei mondi, né dei modi

Le guerre dal cielo -modello post Vietnam- avvengono di notte, lo sanno anche i bambini. Il caldo nel deserto è nemico dei marines, lo sanno anche i bambini.

Così, il vento giallo detto “della vecchia donna” porta una tenue speranza, perché la stagione più calda inizia ad avanzare.

Lo sanno anche i bambini.

Chiamiamolo Omar. Deve avere intorno ai dieci anni, forse anche dodici: secondo alcuni studi medici le inusitate ristrettezze hanno abbassato di qualche centimetro l'altezza media dei “figli dell'embargo”. Nuova figura lavorativa nel Paese del petrolio, Omar fruga nel bidone dell'immondizia davanti all'hotel Andalus, a pochi metri dal fiume Tigri. Recupera le lattine di Pepsi e 7up made in Iraq (senza pagamento di royalties alla casa madre negli Usa: un esperimento di violazione dei brevetti). Ne hanno consumate in abbondanza gli stranieri delle delegazioni pacifiste che si susseguono a Baghdad. Davanti a Omar è parcheggiato il bus rosso a due piani, tipicamente british, che ha portato qui da mezza Europa decine di scudi umani occidentali, che vogliono fare da deterrente alla guerra e alla distruzione di installazioni civili. “Sarebbe molto pericoloso per Bush e Blair e gli altri governi se loro cittadini rimanessero vittima delle bombe; invece ai loro occhi il sangue iracheno conta ben poco”, spiega l'organizzatore, Ken O'Keefe, ex marine che ha rinunciato alla cittadinanza americana per protesta. Entusiasmo da neofita della pace: l'effetto-interposizione richiederebbe migliaia di “corpi di pace”.

Magari il piccolo riciclatore di rifiuti si chiama davvero Omar (un nome illustre, quello del secondo califfo Ibn Al Qattab, celebrato per la sua potenza ma soprattutto per la sua magnanimità). Molti sono gli Omar che per povertà si arrangiano e non vanno più a scuola. Forse è quello stesso Omar che, nel luglio 1992, protetto dalle braccia di suo padre nel suq semivuoto -dove si aggiravano come spettri donne in chador resi verdastri dall'uso- incontra la visitatrice occidentale di una inutile “delegazione di solidarietà”. E mentre gli chiedo ismeq?, come ti chiami, lui mi regala un fiore, da allora conservato sottovetro in una casa italiana. O può anche essere che quel bambinetto dal viso mediorientale, sopravvissuto alla guerra del Golfo, sia già morto di embargo: il numero medio delle vittime è di cinquemila al mese.

Ma la popolazione cresce lo stesso.

Per molti Omar morti di guerra ed embargo negli anni scorsi, tanti altri sono nati.

Non nel migliore dei mondi, né dei modi.

Bassora, città all'uranio
A Bassora, la clinica universitaria Talimi College custodisce le prove di una realtà durissima. Il professor Alim Yacoub ha guidato uno studio epidemiologico da cui risulta che Bassora e dintorni registrano una quantità enorme -sconosciuta prima- di bambini malformati o leucemici, probabilmente a causa dei proiettili all'uranio impoverito della guerra del Golfo.

Shuars, infermiera di origine armena, non ha mai lasciato la sua villetta, e dice che il destino è tutto: “Vedi, mio figlio ha fatto il militare per venti anni, eppure è ancora vivo”. Il figlio -dunque, un appartenente al temibile esercito iracheno- non parla, sta dando avanzi ai cani randagi di fronte a casa, mentre passa uno dei tanti asinelli carichi di bombole del gas arrugginite, a poche centinaia di metri dallo sfavillio dell'hotel Sheraton.

Leila, 40 anni, è tecnico chimico addetta alla clorazione di uno degli impianti di potabilizzazione, uno di quelli che funzionano. Giorni fa aerei (americani o inglesi) hanno bombardato molto vicino alla sua casa, nella no fly zone, la zona di non volo imposta fin dal 1991 nei cieli dell'Iraq. Negli anni sono riusciti a bombardare pericolose famiglie di pastori e intere greggi di pecore nemiche. Leila è rassegnata, come tutti, e continua stancamente a prendere i tre pulmini in successione che la portano al lavoro, nella polvere (all'uranio?) che circonda Bassora. Un tempo quella città era detta “Venezia d'Oriente”, per i suoi canali, i ponti arcuati di legno, le case traforate. Un'architettura preziosa e fragile, una vittima di guerra crivellata dai bazooka iraniani, poi spappolata dalle bombe “alleate”, infine negletta negli anni di sanzioni.

Ma l'Iraq che aspetta le bombe di Bush non è immobile come un insetto minacciato. I commerci e il business vanno avanti. Ogni giorno un aereo di linea sfida i caccia americani e porta uomini d'affari da Baghdad a Bassora, e ritorno. L'aereo è di fabbricazione cinese, come i bus a due piani rossi, belli nuovi comparsi da poco nelle strade di Baghdad. Un nuovo asse commerciale Iraq-Terzo mondo (soprattutto Cina, India e Vietnam) è frutto dell'embargo; il Paese prima era strettamente legato al mondo anglosassone, come i rispettivi regimi. Ora molti macchinari, alimenti, medicinali, arrivano da Paesi asiatici, arabi, e dalla Russia, oltre che dall'Europa continentale. Però, ed è una delle delle tante stranezze di questo teatro dell'assurdo che si sta giocando in Mesopotamia, quasi metà del petrolio che l'Iraq esporta -in quantità limitate e sotto tutela Onu- è acquistato da compagnie petrolifere Usa, per i serbatoi yankee. Ecco perché l'economista Nabil Qashat ritiene che dietro la voglia di guerra di Bush non ci siano solo Exxon o le altre sorelle del petrolio: “È la necessità americana di avere accesso a carburante a basso prezzo anche per il futuro, di tagliare eventualmente gli approvvigionamenti a Paesi scomodi, compresa la vostra Europa, e di spazzar via il potere di alcuni Paesi produttori sul prezzo del petrolio”.!!pagebreak!!

Ricchi di guerra
A proposito di prezzi. Quello della vita in Iraq è molto basso, inversamente proporzionale a quello ormai altissimo dei beni di prima necessità (tranne il paniere della “tessera”). “Con una paga di 20 dollari al mese come si fa? E così tutti fanno due o tre lavori” dice Sabah, ex farmacista, ex militare scampato per caso alla carneficina del Golfo, ora accompagnatore di giornalisti e delegazioni.

Dopo dodici anni di embargo, c'è un'evidente ricchezza privata -i traffici illegali di guerra e d'emergenza ingrassano uno strato della popolazione che si può permettere le auto fiammanti e gli abiti alla moda di via Al Arasat Al India&endash; che stride con la pubblica miseria, nel Paese che ha le seconde riserve di petrolio al mondo ma casse pubbliche vuote. Il petrolio, o si vende o non si mangia (i datteri sì: gli iracheni non ne hanno mai mangiati tanti, in tutte le salse e marmellate, da quando l'embargo ne proibisce l'esportazione. A parte il contrabbando militante da parte di pacifisti europei). L'impoverimento sembra aver insegnato a questa ex monocoltura petrolifera chiamata Iraq che meno si dipende meglio è: così sono state incoraggiate l'agricoltura e la trasformazione alimentare in loco, e la ricostruzione è stata fatta in modo autarchico, come spiega Qashat: “Sarà da studiare il modello di ricostruzione iracheno, avvenuto in un contesto di scarsità di materiali di importazione e abbondanza di manodopera interna. In tempi recenti non è mai successo che un Paese industrializzato sia rimasto tagliato fuori dal mondo per così tanto tempo”.

Un isolamento non solo economico. Nella corsia dell'ospedale pediatrico di Baghdad, il dottor Masin al Shimari si distrae un attimo dai bambini leucemici (ma anche dal ricordo di quando, nei primi anni dopo la guerra, era costretto a operare senza anestetici) e tira fuori la foto scolorita di lui ragazzino, in visita a Roma con la famiglia. Una vacanza che adesso solo gli arricchiti di embargo si possono permettere. Masin guadagna l'equivalente di 50 euro al mese.

Fra una qunbula (bomba) e l'altra, gli iracheni non si muovono più. Esclusi quei due milioni di cervelli che hanno potuto lasciare il Paese fra il 1991 e oggi.

Restano gli eroi, veri scudi umani.

Americani a Baghdad
Vicino a Omar che scava fra i rifiuti, il fiume Tigri scorre nel solito tramonto da mille e una notte, ma la sua portata è bassa. È vittima della siccità, ma anche della politica: la Turchia ha costruito dighe a monte dei due fiumi mesopotamici e trattiene l'acqua, mentre dà via libera ai bombardieri di Bush. Guardando le acque dall'hotel Al Fanar, quartier generale dei pacifisti soprattutto americani, Kathy Kelly del gruppo Voices in Wilderness dice: “Non è più il tempo di essere gentili. Occorre praticare la disobbedienza civile”. Ovunque, in tutto il mondo, che un altro americano a Baghdad, Joel, chiama “Il pianeta del male: ormai per Bush l'asse è diventato una sfera. Possibile che tutti insieme non si riesca a fermarlo?”.

Ma padre Samy, rettore del seminario di Baghdad, non è ottimista.

La strepitosa alleanza fra Paesi e opinione pubblica mondiale contro la guerra non basta? “È un piccolo aiuto, per rallentare…”.

E aggiunge: “Ma come fa qualcuno a pensare di salvare un popolo buttandogli in testa tremila missili in poche ore?”.

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