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Trump, la gestione dell’emergenza e quel superomismo da cartone animato
La risposta alla crisi sanitaria ed economica messa in atto dal presidente è stata superficiale: ha delegittimato la scienza, alimentato gli estremismi e fatto esplodere le disuguaglianze. Le elezioni di novembre possono segnare la fine del suo bellicoso percorso ma lo sfidante Biden è sbiadito
Tra due mesi si vota negli Stati Uniti. Si tratta di elezioni assai anomale, mentre è in atto una pesantissima epidemia che sta mettendo a dura prova il Paese. Il presidente Donald Trump è stato indebolito da questa condizione che ha deciso di affrontare in pratica senza una strategia credibile, affidandosi a una narrazione quasi superstiziosa, dominata dal ripudio della scienza e dalla costruzione del nemico perfetto, inizialmente incarnato dai cinesi. Così facendo ha spaccato l’opinione pubblica, alimentando il fanatismo dei sostenitori più duri, ma allontanando la parte moderata e più spaventata del fronte di Trump. In quest’ottica, l’estremismo del presidente ha reso ancora più marcate le tensioni razziali, per molti versi persino coltivate dallo stesso Trump, ha esacerbato il tema della diffusione “domestica” delle armi e ha alimentato un antieuropeismo sconosciuto anche a Ronald Reagan.
Il suo superomismo da cartone animato ha fatto riesplodere molte delle contraddizioni americane sedate, almeno sul piano formale, dal politicamente corretto. L’improvvisa crisi economica legata all’epidemia ha fatto emergere poi il costo eccessivo degli sgravi fiscali, che hanno approfondito le diseguaglianze portate alla luce, in primis, dalla mancanza di un sistema sanitario in grado di garantire realmente la tutela della salute collettiva, e ha reso fortissimi i colossi del big tech, consentendo ad Apple di avere un valore pari al Pil di un Paese del G8. L’epidemia sta dilagando soprattutto nel Sud, dopo aver colpito duramente il resto del Paese.
Le cause di una simile esplosione sono molteplici e complesse; tre tuttavia sembrano più evidenti. La prima ha a che fare proprio con la narrazione politica di Trump. Per il presidente dell’America first, della rinata superiorità americana, che non nasconde l’attrazione verso un suprematismo dai tratti quasi biologici, non è ammissibile che gli Stati Uniti si ammalino. Dunque le parole d’ordine del comandante in capo a stelle e strisce non sono state solo quelle della sottovalutazione della malattia in quanto tale, come accaduto anche altrove, ma quelle della impossibilità per gli americani, e in primis per lo stesso presidente, di ammalarsi. I cinesi avevano manipolato un virus che gli era esploso in mano e che avevano diffuso in giro per il mondo mettendo in luce le debolezze degli altri “popoli”. Ma il popolo americano non poteva, per la sua naturale superiorità, ammalarsi; non servivano e non servono le mascherine, non serve il lockdown e il distanziamento perché, e ancora una volta avrebbero dovuto dimostrarlo i comportamenti del presidente, gli americani avrebbero sconfitto il virus senza neppure la necessità di combatterlo. Semmai avrebbero potuto usare qualche rimedio “magico” ma non avrebbero avuto bisogno dei troppo complicati consigli della scienza. In questo senso il rifiuto dell’epidemia, e soprattutto dell’impossibilità per gli americani di esserne vittime, ha coinciso con il rifiuto dell’indipendenza della scienza da qualsiasi condizionamento della politica e della narrazione presidenziale, come dimostrano gli annunci sul vaccino.
Si è affermata così nell’immaginario collettivo una convinzione pericolosissima per cui temere il virus era considerato un elemento di debolezza per un intero popolo e significava la sottomissione a qualche potere “antinazionale”, che fosse quello della scienza o quello dei cinesi. Per Trump, supremazia, libertà individuale assoluta e salute di ferro erano i cardini di una visione che non accettava in toto l’idea dell’epidemia. A rendere più complesso arginare l’epidemia hanno concorso due altri fattori rappresentati dalla struttura federale, che ha indotto i singoli Stati ad adottare misure troppo difformi di fronte ad un virus che certo non si ferma ai confini, e la già ricordata, larga diffusione della sanità privata, costosa, troppo selettiva e del tutto inadatta ad affrontare un fenomeno sociale come la pandemia che certo non distingue in base al reddito.
Ora, Donald Trump è, al tempo stesso, più debole e ancora più radicale ma il suo avversario democratico pare assai sbiadito. Joe Biden ha 78 anni, è entrato in Senato ai tempi di Nixon nel 1972, ha tentato a più riprese la corsa elettorale ed è stato logorato da due lunghe e impegnative vicepresidenze con Obama. Ha vinto le primarie per il rapido indebolimento degli altri candidati perché troppo giovani o troppo vecchi; in pratica una competizione animata da presenze simboliche, in attesa del futuro o stanche eredi del passato. Lo sfidante di Trump finisce per sembrare così un’alternativa già usurata. Non è davvero confortante che nel pieno della crisi più dura, la battaglia elettorale per la carica della principale potenza economica e militare del pianeta avvenga tra due ultrasettantenni che hanno esaurito le loro risorse politiche e si reggono su una contrapposizione decisamente sloganistica.
In particolare, Biden incarna la volontà di liberarsi del feticismo bellicoso e illiberale dell’American first; un obiettivo importante che però avrebbe bisogno di abbinarsi ad un’idea programmatica e ad un modello di società nuova, successiva all’epidemia, ad oggi invisibili e non surrogabili da una rampante candidata alla vicepresidenza, destinata a misurarsi con una intricata politica estera stravolta dalle controverse mosse di Trump, a tratti isolazionista e in altri casi iper aggressivo. Intanto, la Fed di Jerome Powell annuncia di abbandonare il riferimento al 2% di inflazione come base della propria politica monetaria; ciò significa un dollaro decisamente debole che sarà reso ancora più debole da eventuali, e probabili, polemiche sui “brogli” elettorali. È davvero definitivamente finito il lungo “secolo americano”?
Università di Pisa
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