Ambiente / Attualità
Il modello “fossile” è in via di estinzione. Ma la transizione prevede dei costi: chi li sosterrà?
Dai “Gilet gialli” al movimento “Extinction Rebellion”, un filo rosso lega due proteste molto diverse. Il modello attuale va superato, pena la nostra “estinzione”. E l’emergenza impone la transizione. Ma chi dovrà pagarla? Tra gli strumenti decisivi spiccano le iniziative di “carbon pricing”. Dal Canada alla Colombia, Cina inclusa. Il nostro viaggio
“Il mondo sarà distrutto dalle persone perbene che non fanno nulla. Dobbiamo agire adesso”. “Non possiamo aspettare che i politici si occupino di salvare il nostro Pianeta”, “We must act now”. Lungo i parapetti del Lambeth Bridge di Londra, a pochi passi dal palazzo del Parlamento di Westminster, sono rimasti alcuni adesivi firmati dal movimento “Extinction Rebellion” (rebellion.earth). Il logo è una clessidra stilizzata. Resistono lì dal 17 novembre 2018, quando 6mila persone hanno bloccato pacificamente, per quasi un’intera giornata, cinque ponti strategici della capitale inglese. Oltre al Lambeth, appunto, quelli di Southwark, Blackfriars, Waterloo e Westminster. “Abbiamo marciato, fatto pressione, firmato petizioni. Non è servito a nulla”, hanno gridato i manifestanti durante quella prima “Giornata della ribellione” lanciata contro l’inazione dei governi di fronte ai cambiamenti climatici. “Siamo di fronte a un’emergenza globale senza precedenti e il governo non è riuscito a proteggerci”. Per il blocco stradale non-violento, concluso in un presidio nella piazza del Parlamento, ci sono stati 85 arresti ma nessuno scontro con la polizia.
In quelle settimane, però, le manifestazioni di Londra sono passate in secondo piano. In tutta la Francia, infatti, il nascente movimento dei “Gilet gialli” iniziava a scendere nelle strade (anche) contro il “caro benzina” disposto dal governo di Emmanuel Macron. La risposta durissima della polizia e le violenze -subite e praticate dai “Gilet”- coprono mediaticamente la “ribellione” non-violenta inglese. Un filo rosso lega però le due proteste così diverse: il modello fossile va superato, pena la nostra “estinzione”. E l’emergenza impone la transizione. Ma chi dovrà pagarla?
Il quadro drammatico e senza precedenti è quello descritto nelle 729 pagine dell’ultimo rapporto speciale dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change, ipcc.ch/sr15/), il comitato dell’Onu sul clima, datato ottobre 2018. Stefano Caserini, docente di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano, ne ha sintetizzato la portata sconvolgente: “L’IPCC ci dice in sostanza che siamo con le spalle a muro. A lungo si è parlato di un aumento di 2° C, rispetto ai livelli pre-industriali, come la soglia di sicurezza per il Pianeta. Ma il Comitato Onu ha spiegato in modo a tratti brutale perché anche il mezzo grado di differenza fra 1,5° C e 2° C è importante, molto più di quanto si pensasse nel passato. Entro il 2100 l’innalzamento del livello del mare su scala globale potrebbe essere minore di 10 centimetri con un riscaldamento globale di 1,5° C rispetto a 2° C; detta così sembra poca cosa, ma potrebbe voler dire che 10 milioni di persone sarebbero sottoposte a minori rischi. Oppure, 420 milioni di persone in meno sarebbero esposte alle ondate di calore se si limitasse il riscaldamento globale a 1,5° C rispetto a 2° C. Neanche 1,5° C è una soglia di sicurezza, visto che già oggi con un aumento di 1° C stiamo vedendo molti impatti del riscaldamento globale. Un modo spiacevole per spiegarlo è dire che le barriere coralline potrebbero ridursi del 70-90% con 1,5 °C, mentre con 2 °C sparirebbero completamente (perdita maggiore del 99%)”. Non è tutto. “Se la temperatura aumentasse tra 1,5 °C e 2 °C -chiarisce Caserini citando il rapporto IPCC- potrebbero essere innescate alcune perturbazioni catastrofiche al sistema climatico globale, quali la destabilizzazione della calotta continentale della Groenlandia, in grado di provocare un aumento del livello medio dei mari di molti metri per secoli o millenni”. I livelli attuali di emissioni antropogeniche, invece, ci porterebbero verso i 3 °C.
Non tutto è perduto. “Limitare il riscaldamento globale a 1,5 °C è possibile -spiega Caserini-; richiede però rapide e lungimiranti transizioni in molti settori quali gestione del suolo, energia, industria, edilizia, trasporti e pianificazione urbana: è necessario che le emissioni antropogeniche nette globali di CO2 entro il 2030 diminuiscano di circa il 45% rispetto i livelli del 2010, raggiungendo lo zero intorno al 2050. Quindi, pur se è ancora possibile limitare il riscaldamento globale a 1,5° C, per farlo è necessario qualcosa di davvero straordinario. Non solo abbandonare il carbone, chiaramente incompatibile con uno scenario a 1,5° C, ma anche il gas: solo l’8% dell’elettricità prodotta nel 2050 avverrebbe con il gas naturale, in impianti con cattura e stoccaggio del carbonio”.
“Se la temperatura aumentasse tra 1,5 °C e 2 °C potrebbero essere innescate alcune perturbazioni catastrofiche al sistema climatico globale” – Stefano Caserini
Purtroppo però il 2018 è stato l’anno record per le emissioni planetarie di CO2, nonostante gli sforzi globali dichiarati per fronteggiare il cambiamento climatico. Secondo i dati contenuti nell’ultimo Global Carbon Budget 2018 (globalcarbonproject.org), l’aumento di oltre il 2% è dipeso da una massiccia crescita dell’utilizzo del carbone -per il secondo anno consecutivo- e da un sostenuto ricorso a petrolio e gas. Le emissioni globali derivanti dalla combustione di combustibili fossili dovrebbero raggiungere 37,1 miliardi di tonnellate di CO2 nel 2018 (+ 2,7%) -le previsioni diramate alla fine dello scorso anno-. Un quadro in peggioramento dopo tre anni di sostanziale stop tra 2014 e 2016.
Ecco perché Larch Maxey, che da trent’anni si occupa di geografia e sostenibilità insegnando anche all’Università di Swansea, ha deciso di dar vita insieme ad altri a “Extinction Rebellion” nella primavera 2018, dopo due anni di studio e preparazione. “Nel nostro movimento tutti sono uguali, non ci sono leader che dicono alle persone che cosa fare. Siamo volontari -spiega Maxey ad Altreconomia- e non abbiamo personale retribuito. Questo è un principio importante per noi visto che ogni giorno si estinguono 200 specie e l’umanità stessa è a rischio. Non vogliamo creare posti di lavoro ma contribuire a salvare la nostra e le altre specie”. Chi si ritrova nei 10 principi e valori può salire a bordo. La nonviolenza è uno di questi. “Questo movimento è unico per mia esperienza. C’è un forte afflusso di giovani ma anche di persone più anziane. L’84% dei membri è alla sua prima forma di attivismo e questo è davvero emozionante perché dà forza e qualità inedite al nostro movimento”. La ricetta funziona. Migliaia di persone rispondono positivamente e la macchia si allarga. Oggi si contano avamposti “ribelli” in oltre 35 Paesi (Italia inclusa) e una data globale della prossima mobilitazione: 15 aprile 2019, la “Giornata internazionale della ribellione” (inserita in una settimana di mobilitazione internazionale). I “target” delle azioni di Extinction Rebellion non sono oleodotti, navi rompighiaccio, piattaforme petrolifere o gasdotti. Oltre ai ponti, gli attivisti hanno manifestato infatti anche di fronte alla BBC: pretendono che “venga detta la verità sull’emergenza” ai cittadini.
Poi è necessario promuovere la transizione. “La nostra seconda richiesta -aggiunge Maxey- è che il governo attui politiche vincolanti per azzerare le emissioni di carbonio nel Regno Unito entro il 2025 e intraprenda ulteriori azioni contro i gas climalteranti. Inoltre chiediamo che cooperi a livello internazionale per far sì che l’economia globale non consumi all’anno più della metà delle risorse del Pianeta”. È il ritratto della transizione. O per meglio dire della “‘Just transition’ (giusta, appropriata, equa) con cui ormai a livello internazionale si parla di una delle grandi questioni collegate alla lotta al surriscaldamento globale: trovare nuovi posti di lavoro per chi lo perderà per effetto delle politiche di mitigazione dei cambiamenti climatici”, come spiega Caserini. Che aggiunge: “Ci sono settori che perderanno occupazione, ma altri che ne guadagneranno: la sfida è quindi gestire la transizione. Ricordando che è una transizione inevitabile, e che è già iniziata”.
Tra gli strumenti più importanti per affrontare la transizione spiccano le iniziative di “Carbon pricing”, cioè quelle leve di mercato finalizzate a rendere non conveniente l’emissione di CO2. A metà 2018, secondo la Banca Mondiale (carbonpricingdashboard.worldbank.org/map_data), erano 88 le “Parti” (ovvero i Paesi) aderenti all’Accordo di Parigi, rappresentanti di ben il 56% delle emissioni globali di gas serra, che già le applicavano o avevano in previsione di farlo nell’ambito dei propri “contributi nazionali”. Chi sotto forma di mercati dei permessi di emissione (ETS, Emissions Trading System, o “Cap and trade”) e chi sotto forma di tassazione (“Carbon tax”). “Nel caso dell’ETS -spiega Marzio Galeotti, professore ordinario di Economia dell’ambiente e dell’energia presso il Dipartimento di Scienze e politiche ambientali dell’Università degli Studi di Milano- viene fissato un tetto (Cap) complessivo di emissioni da non superare e successivamente introdotti dei pezzi di carta, cioè i permessi che assegnano a un soggetto del mercato il diritto di emettere, ad esempio, 1 tonnellata. Questi permessi di emissione vengono distribuiti a tutti gli agenti che inquinano, coloro cioè che tipicamente usano fonti fossili che generano CO2. Questi hanno obbligo di stare nei limiti: se stanno sotto al tetto e hanno eccedenza di permessi li rivendono sul mercato (Trade). Chi non è bravo e supera il limite, quindi inquina, deve comprare nuovi titoli sul mercato”. Tutto sta nell’individuare il prezzo di equilibrio, quello cioè che dovrebbe segnalare il “vero valore economico di emettere una tonnellata di CO2”, chiarisce Galeotti. La “Carbon tax”, invece, prevede che chiunque faccia ricorso ai combustibili fossili debba pagare (ad esempio a tonnellata).
Le potenzialità su scala internazionale sono straordinarie, come dimostrano già i risultati ottenuti in questi anni a livello regionale, nazionale e tra gruppi di Paesi. “A tutt’oggi sono state attuate o sono previste 51 iniziative di ‘Carbon pricing’ -spiegano dalla Banca Mondiale-. Si tratta di 25 sistemi ETS e 26 azioni di ‘Carbon tax’ applicate principalmente a livello nazionale. Queste iniziative coprirebbero 11 GtCO2e (miliardi di tonnellate equivalenti, ndr), oltre il 20% delle emissioni globali di gas serra”. Lo scorso anno, i valori complessivi di ETS e Carbon tax hanno raggiunto quota 82 miliardi di dollari, facendo registrare un aumento del 56% rispetto al valore del 2017.
Entrambe le opzioni contribuiscono in teoria a tagliare le emissioni rispondendo al principio che chi inquina deve pagare. Pur con qualche difficoltà registrata negli anni. Si pensi ad esempio al sistema ETS dell’Unione europea avviato nel 2005, nel quale è inserita anche l’Italia, il cui prezzo di mercato è crollato dai 20 euro a tonnellata delle prime fasi ad appena 3 euro nel 2013, dopo le pressioni dell’industria fossile, per poi risalire dopo aggiustamenti in corsa.
26mila miliardi di dollari: i benefici economici possibili al 2030 con un’ambiziosa azione per il clima
La riuscita pratica di queste leve, in ogni caso, sta nell’equità che guida il processo. “Posto che un mercato dei permessi funziona in maniera diversa da una Carbon tax -riflette Galeotti- siamo comunque di fronte a una misura regressiva, il che significa che grava indistintamente su individui con capacità di reddito profondamente diversa. Quindi c’è il rischio che l’onere della tassa sia sopportato in particolare da fasce della popolazione con i redditi più bassi. È la caratteristica di tutte le tasse indirette, pensiamo all’Iva o alle accise”. Ma quel rischio può essere “mitigato” a posteriori, utilizzando le entrate fiscali in maniera “dedicata” (Galeotti). Tradotto: evitare di scaricare la transizione sui “Gilet gialli” è possibile.
Lo sa bene Helen Mountford, vicepresidente dei gruppi di ricerca su clima ed economia presso il World Resource Institute (wri.org) nonché direttore del programma “New Climate Economy” (NCE). “Se fatte bene, iniziative di ‘Carbon pricing’ possono essere un potente strumento per ridurre le disuguaglianze e stimolare lo sviluppo sostenibile -spiega Mountford ad Altreconomia-. E poter così favorire le economie stimolando l’innovazione e incentivando le aziende a trovare soluzioni a basse emissioni di carbonio in tempi brevi. Stando al nostro ultimo report del ‘New Climate Economy’, un’azione ambiziosa per il clima potrebbe generare benefici economici per 26mila miliardi di dollari entro il 2030. Tra i benefici per famiglie e imprese possiamo includere nuovi posti di lavoro in industrie a basse emissioni di carbonio e risparmi per la salute derivanti dalla riduzione dell’inquinamento atmosferico”.
“Se fatte bene, iniziative di ‘Carbon pricing’ possono essere un potente strumento per ridurre disuguaglianze e stimolare sviluppo sostenibile” – Helen Mountford
Senza considerare che con quelle nuove entrate i governi potrebbero investire in istruzione, sanità, infrastrutture, programmi per combattere la povertà. Galeotti usa una formula illuminante: “Riforma fiscale ambientale”. E per “mitigare” la portata regressiva, continua Mountford, “Le risorse raccolte potrebbero anche essere restituite direttamente alle persone attraverso riduzioni o sgravi fiscali, destinati in particolare alle famiglie a basso e medio reddito”. I margini sono straordinari: “Come NCE riteniamo il beneficio da ‘Carbon pricing’, combinato con la riforma dei sussidi per i combustibili fossili, potrebbe raggiungere un valore di 2,8mila miliardi di dollari all’anno. Stiamo parlando del Prodotto interno lordo dell’India di oggi”. E per non lasciare indietro nessuno si potrebbe intervenire ad hoc nelle aree più dipendenti dal modello fossile con programmi finanziati di prepensionamento e opportunità di riqualificazione lavorativa.
“Tra mercato dei permessi e Carbon tax c’è il rischio che l’onere sia sopportato in particolare da fasce della popolazione con i redditi più bassi” – Marzio Galeotti
Mountford cita quattro iniziative di “Carbon pricing” ben riuscite per la loro capacità di utilizzare le entrate e rispondere a necessità economiche e sociali. “In Canada, la Carbon tax applicata in British Columbia (dal 2008, ndr) restituisce parte delle entrate ai residenti sotto forma di sgravi fiscali. E il governo ha preso atto che le famiglie a basso e medio reddito stanno finanziariamente meglio con quella misura in vigore piuttosto che il contrario. Inoltre a partire da aprile, il Canada applicherà una misura di Carbon pricing a livello nazionale. Il Cile ha introdotto la Carbon tax per le centrali termoelettriche che nel 2017 era di 5 dollari per ogni tonnellata di CO2 equivalente. In questo modo il Paese ha raccolto 145 milioni di dollari e implementato la misura in modo da aumentare i costi per le grandi compagnie elettriche riducendo l’onere fiscale per i singoli consumatori. La Colombia ha lanciato un’analoga carbon tax nel 2017, e prevede di utilizzare le entrate (172 milioni di dollari nel primo anno) per sostenere progetti ambientali e di sviluppo rurale essenziali per preservare il nuovo accordo di pace. Poi c’è l’Irlanda, che ha adottato un approccio diverso. Il Paese ha introdotto una Carbon tax nel 2008 a seguito della crisi finanziaria globale per incrementare il gettito ed evitare ulteriori misure di austerità”. Nell’elenco c’è anche la Cina, il più grande carbon market del Pianeta. “Siamo stati molto rinfrancati dall’aver visto la Cina adottare un sistema nazionale ETS alla fine del 2017 -afferma Mountford-. Il programma si trova nelle fasi iniziali, copre per ora solo il settore energetico e circa un terzo delle emissioni totali del Paese. Dovremo quindi attendere i risultati, sia in termini di riduzione delle emissioni sia in termini di effetto economico e sociale. Speriamo che la scelta di ricorrere a iniziative di carbon pricing da parte di un’economia così rilevante possa incoraggiare altri Paesi”.
Il coinvolgimento della cittadinanza è strategico. “I governi devono spendersi per fare un lavoro di comunicazione credibile rispetto ai costi e ai benefici delle misure -sottolinea Mountford-. L’Indonesia, ad esempio, ha avuto un discreto successo tramite campagne televisive e sui giornali che illustravano le riforme in tema di sussidi per i combustibili fossili. E fortunatamente oggi abbiamo eccellenti esempi di misure di carbon pricing da mostrare”. Smontando il luogo comune per il quale queste misure determinerebbero un rallentamento dell’economia. “Carbon pricing e crescita economica forte e inclusiva sono andati di pari passo in diversi contesti: penso ai casi di British Columbia, Svezia, gli Stati nordorientali degli USA e la California”.
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