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The Economist: il “buon” cibo nel mirino dei media


Abbiamo chiesto ad Alberto Zoratti, vicepresidente dell’Assemblea generale italiana del commercio equo e solidale e consulente [fair], di commentare per noi l’ultima copertina de The Economist (qui a lato), dedicata al mondo del “buon” cibo, che chiama in causa il commercio equo e solidale e l’agricoltura biologica. La traduzione degli articoli del settimanale inglese sono sul sito di Fairwatch (cliccando su “ultime notizie).

Se l’avessimo immaginato alcuni anni fa, probabilmente non ci saremmo presi sul serio. Prima, lo scorso settembre, un’inchiesta sulla prima pagina del Financial Times ripresa da alcuni tra i principali quotidiani nazionali; adesso, tre pagine più un editoriale sul numero di The Economist in edicola lo scorso 9 dicembre, con alcuni richiami su diverse testate in Italia. Per non dimenticare la copertina del Guardian di diversi mesi fa, quando i fiori “equosolidali” furono motivo di un’attenzione neanche particolarmente benevola.

di Alberto Zoratti

Insomma, da mercato di nicchia a obiettivo privilegiato (se non addirittura bersaglio mobile) della grande stampa internazionale. Giusto per non sbagliare, diciamolo subito: è assolutamente inverosimile un complotto internazionale ai danni del movimento equo e solidale; a volte l’umiltà non guasta ed in questo caso dovremmo farne uso a volontà. In realtà la questione rischia di essere più articolata, e non per questo meno insidiosa: il commercio equo e solidale, come fenomeno economico e come pratica sociale, sta crescendo in maniera sostanziale, in particolare dal 2000 in poi. E cresce al punto tale che anche le grandi multinazionali fanno la fila cercando un bollino di eticità, per quanto piccolo, da esibire su alcuni loro prodotti.

È il passaggio dalla nicchia al grande palcoscenico del mercato, dove anche il giovane attore alle prime armi è sotto gli occhi del vasto pubblico. E come ogni spettacolo che si rispetti, i fattori che determinano il successo o l’insuccesso sono molti, e parlano di preparazione adeguata, consapevolezza delle proprie capacità e chiarezza del proprio ruolo.

Fuor di metafora, cosa emerge dalle inchieste di questi mesi? I punti di critica sono diversi, ma possiamo riassumerli in pochi concetti: il commercio equo è una forma di sussidio che ha effetti distorsivi sul mercato (sostiene produzioni altrimenti destinate a scomparire per fare posto ad altre più efficienti); il commercio equo non paga adeguatamente i propri produttori; le grandi imprese utilizzano la certificazione come strumento di marketing, ma per il resto continuano a fare affari “as usual”. Obiezioni di merito, che però toccano il senso profondo del commercio equo e le sue strategie. Sul primo la questione andrebbe affrontata sia a livello politico che di prospettiva di sviluppo: il commercio equo non è la soluzione a tutti i problemi posti dall’economia internazionale, ma pone al centro la gestione della domanda e dell’offerta.

I piccoli produttori e le comunità a cui appartengono non sono in grado di reggere la competizione spinta ed unfair dei mercati internazionali senza che ci siano meccanismi di tutela adeguata, che parlano di sostegno e di protezioni tariffarie alle produzioni di nicchia, di sostegno allo sviluppo dei mercati locali e, soprattutto, di gestione della domanda e dell’offerta tale da armonizzare l’andamento dei prezzi. Il senso del prezzo minimo e del prezzo equo è proprio questo: non solo un pagamento dignitoso per le persone che lavorano (riconoscendo ulteriori benefit e instaurando una relazione di lungo periodo), ma la necessità di una riappropriazione delle dinamiche del mercato da parte del pubblico (inteso come società).

Le altre due questioni, pagamento inadeguato e certificazione come marketing, toccano in maniera parziale e pure disinformata gli ultimi sviluppi del movimento. L’entrata dei grandi gruppi ha messo sotto pressione un sistema di per sé delicato, la capacità che le grandi multinazionali e le grandi catene distributive hanno nel comprimere i costi a monte (sui produttori, sia del Nord che del Sud del mondo)  aumentando nel contempo gli extraprofitti a valle (grazie ad una politica dei prezzi insidiosa) è enorme e non bastano né le buone intenzioni né le giovani strutture di controllo del mondo equo e solidale per farvi argine. Certo è che se Ian Bretman, membro di Flo (Fairtrade labeling organisation) intervistato da The Economist, suggerisce a tutti i perplessi dal caffè equosolidale di Nestlé di evitare di comprarlo (nell’ottobre del 2005 Nestlé ha messo in vendita un caffè certificato da Fairtrade Foundation Uk, vedi Ae n. 66, novembre 2005, N.d.R.), rivolgendosi piuttosto alle miscele dei piccoli produttori, lo scenario è quanto meno sconcertante.

Soprattutto perché il gusto che rimane in bocca è amaro, ed è quello di una reale sottostima degli effetti che un’apertura così “idealistica” al mondo delle corporation può portare. Altro che gusto di caffè. L’alternativa? La nicchia? Inverosimile, anche se non è altrettanto realistico credere che il futuro dell’equo e solidale si debba giocare su due campi contrapposti, come in una partita di tennis: da una parte il velleitarismo no global e dall’altra il matrimonio con il mercato.

Il Commercio equo è stato capace di sperimentazione, e diverse esperienze di sviluppo di mercati locali e di diversificazione ne sono un esempio. Basterebbe vederli e considerarli, senza paraocchi. Esistono ricerche universitarie, diverse delle quali italiane, che affrontano l’impatto positivo della commercializzazione equosolidale, soprattutto quando le risorse vengono utilizzate dalle comunità per l’auto-consolidamento e per rafforzare i mercati locali in cui operano.

Ma il Commercio equo, quello delle organizzazioni, delle esperienze concrete, delle pratiche positive, troppe volte non è stato in grado di comunicarsi e di presentarsi in modo pienamente convincente. Si è preferito comunicare il sogno, un commercio equo immune da limiti e da contraddizioni, che basta a se stesso. Forse è venuto il momento di mettere da parte le titubanze ed i sogni e di scendere nell’arena. Con la propria carica di sperimentazione e l’esperienza accumulata, senza perdere di vista gli obiettivi originari, raccontiamo cos’è stato capace di costruire negli ultimi venti anni il movimento.

Raccontiamoci. Per evitare che altri lo facciano per noi.

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