Tempo libero e dannato – Ae 87 –
Turismo, cultura e tempo libero sono misurati in funzione dei nostri consumi. Così, mentre ci affanniamo per difendere il nostro diritto alla mobilità low cost, restiamo poveri di relazioni e di bellezza Viviamo da poveri in mezzo alla ricchezza. Tanto…
Turismo, cultura e tempo libero sono misurati in funzione dei nostri consumi. Così, mentre ci affanniamo per difendere il nostro diritto alla mobilità low cost, restiamo poveri di relazioni e di bellezza
Viviamo da poveri in mezzo alla ricchezza. Tanto è vero che appena abbiamo un fine settimana libero fuggiamo via, andiamo “altrove”. È così anche per le agognate vacanze: per trovare località belle e suggestive (se non proprio incontaminate) andiamo il più lontano possibile. Lo tsunami del 2004 ha rivelato, oltre alla vulnerabilità di tante popolazioni, anche questo fuggire lontano appena si può.
Secondo le previsioni dell’Organizza-zione mondiale del turismo, nei prossimi 10 anni raddoppierà il numero di coloro che viaggiano al di fuori del proprio Paese: i turisti globali passeranno dagli attuali 843 milioni a 1,6 miliardi. I viaggi all’interno delle proprie frontiere aumenteranno altresì di 8 volte.
C’è di che interrogarsi: per gli epigoni dello sviluppo tutto ciò è segno e fonte di ricchezza. Una delle grandi tendenze in atto è proprio la crescente quota di spesa dedicata al benessere e al tempo libero; ma il nostro viaggio è ancora fonte di piacere e di scoperta oppure è più spesso il segno di un mondo in fuga?
E c’è da chiedersi se davvero questo immane flusso di persone e di denaro (un giro d’affari, nel 2006, nell’ordine dei 7 mila miliardi di dollari) contribuisca a ridurre la povertà nel mondo. Il turismo figura tra le prime 5 “voci” di entrate economiche per l’80 per cento dei Paesi in via di sviluppo; ma nessuno di loro può vantare un riscatto grazie al turismo. La Banca mondiale valuta che in media il 55 per cento del fatturato turistico non resta nei Paesi in via di sviluppo ma ritorna in Occidente. In alcuni casi, come per molti Paesi caraibici, questa percentuale sale al 70-80 per cento. Sono i cosiddetti “leakages”, ossia i guadagni derivanti dal turismo che si “perdono”, non restano in loco, non contribuiscono allo sviluppo locale. La povertà colpisce ancora 4 miliardi di persone nel mondo, 2 miliardi sopravvivono con meno di un dollaro al giorno: l’80% dei miseri del pianeta, cioè chi vive con meno di 1 dollaro al giorno, vive in 12 Paesi.
In 11 di questi 12 Paesi, il turismo è un settore importante e in forte crescita ma la sorte dei poveri non sembra per nulla evolvere alla stessa velocità.
Il turismo responsabile nasce per questi motivi: per recuperare il senso di un viaggio che non sia solo un’occasione di consumo ma di scoperta, incontro, inannazitutto con le comunità locali (in fondo: con i padroni di casa) e poi con i luoghi; e con l’obiettivo di trasferire in loco un po’ più di ricchezza.
Come abbiamo raccontato su Altreconomia, lo scorso anno sono partite dall’Italia, con organizzazioni riconducibili a Aitr (l’Associazione italiana turismo responsabile), 4.500 persone. In media hanno lasciato “sul campo” il 40 per cento di quanto hanno speso in agenzia (contro il 20 per cento del turismo tradizionale). Si tratta ancora di numeri “omeopatici”, nulla rispetto ai flussi turistici citati sopra; e certamente molto si può ancora fare per abbassare ancora le quote dei “leakages”.
Ma sono numeri in crescita: l’esistere di questo tipo di viaggiatori è innanzitutto un atto di contestazione al turismo predatorio, e forse è uno dei punti d’incontro tra le nostre povertà e quelle dei padroni di casa dei nostri “villaggi vacanza”.
“Liberare il tempo” era il titolo della copertina del nostro giornale nella primavera del 2002. E il tema resta quanto mai attuale. Tempo libero, cultura, turismo sono spesso diventati soltanto una funzione dei nostri consumi. “Cambieremo in modo radicale il loro modo di produrre, informarsi e divertirsi” avevano d’altra parte promesso i vertici di Time-Warner e American on line quando, all’inizio del 2000, si erano fusi in un unico grande gruppo i due colossi americani dell’infotainment (l’informazione-divertimento che da allora ha spopolato) e di internet. Il nostro tempo libero, il nostro modo di viaggiare, di consumare cultura, è soltanto l’altra faccia del nostro modo di produrre: svincolato dal senso, scevro da ogni interrogativo morale, cieco sulle conseguenze ambientali, indifferente rispetto ai costi umani.
Nel 1999, quando è iniziata l’avventura editoriale di Altreconomia, Aitr era nata da appena un anno: 11 le organizzazioni che la componevano allora, davvero un po’ pioniere. Oggi sono quasi un centinaio e non c’è estate che i temi del turismo responsabile e le loro organizzazioni non facciano capolino dalle pagine dei grandi giornali.
Due le riflessioni che, in questi anni, abbiamo incrociato su questo versante e che rappresentano altrettanto frontiere: la prima riguarda il diritto acquisito alla mobilità (nessuno di noi è più disposto a rinunciare alla possibilità di viaggiare, di prendere un volo low cost e passare un fine settimana in una capitale europea);
è il diritto alla mobilità, la mobilità come merce di cui scrive Renzo Garrone nel suo poderoso libro (700 pagine) intitolato proprio “Turismo responsabile”.
La seconda riflessione riguarda il tempo, quel tempo “vuoto” delle relazioni e della gratuità, della bellezza e del gioco, di cui patiamo la mancanza. Appunto, viviamo da poveri (almeno poveri di tempo) in un mondo di ricchi.
E, a ben vedere, tutto questo ci è restituito come in uno specchio nell’incontro con le comunità locali.
A cui invidiamo spesso la bellezza dell’ambiente naturale e un senso “altro” del tempo. Ricordo una sera, in Amazzonia, Brasile, su uno degli affluenti del Rio delle Amazzoni, l’Andirà. Sera, notte: noi, occidentali, guardavamo il cielo, le stelle, la croce del Sud. Loro, i Saterè-Mawè che raccolgono il guaranà nativo importato anche in Italia dal commercio equo, guardavano la televisione, sotto una grande capanna collettiva. Uno spettacolo collettivo, in silenzio, senza commenti, finché il generatore ha funzionato. Ricordo di aver pensato, quella sera, che noi eravamo alla ricerca di quello che non avevamo più -il cielo per esempio-, e loro di quello che non avevano ancora. Noi poveri di bellezza, loro poveri di beni. Ci sarà un punto d’incontro tra queste povertà?
Il commento
Luoghi ricchi di senso
di Gianni Fazzini*
Ho riletto il saggio di Maurizio Pallante, “I monasteri del terzo millennio”. Maurizio mi aveva inviato questo testo, forse una decina d’anni fa. L’avevo letto quasi infastidito perché lui scriveva così chiaramente e così ordinatamente quello che con gran fatica cercavo di proporre alle famiglie dei Bilanci di giustizia: il “dire” e il “fare”.Io penso di essere più un uomo del “fare”. Ma ecco che, di ritorno da Rocca di Papa, dove tra agosto e settembre i Bilancisti hanno parlato del loro rapporto con il lavoro, mi trovo una mail di Natale, monaco camaldolese di Monte Giove (Fano), che mi manda proprio quel testo con la dicitura: “Buona lettura”.
C’è da dire che Natale fa parte del gruppo di lavoro di sei monaci che assieme a me e a Marisa Furlan stanno facendo entrare “Bilanci di giustizia” nei cinque monasteri camaldolesi italiani.
L’ho ascoltato; mi sono riletto con calma “I monasteri del terzo millennio” e mi sono sentito pieno di gioia perché è proprio quello che stiamo vedendo nascere oggi: “strutture leggere, o meglio ancora non strutture, semplici luoghi di incontro dove si ritroveranno per elezione e per affinità persone e famiglie che vogliono riscoprire la dimensione di una vita fondata principalmente, ma non esclusivamente, sulla produzione di valori d’uso, sul dono e sulla reciprocità e sul legame profondo con la propria terra da cui ricavano i valori d’uso…”
È quello che sta avvenendo in mille angoli d’Italia (del mondo! spero).
Dove sono i cantieri dei monasteri del terzo millennio? Solo chi si mette in cammino riesce ad individuarli. È Giovanna che traffica insieme a Clara per costruire a Messina una cooperativa sociale per installare pannelli solari. Sono Dario e Antonella che in Trentino promuovono l’uso della bicicletta, è Patrizio che sceglie con la sua famiglia un lavoro con un terzo di reddito in meno per avere più tempo per tutto il resto. Ma un monastero ha bisogno di un cenobio, del capitolo; ha bisogno di un servizio che permetta alle singole esperienze di raccontarsi, di confrontarsi, di lasciarsi arricchire dagli altri percorsi.
Forse è necessario qualcuno che si dedichi proprio a questo.
* Bilanci di giustizia