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Sul carbone l’Australia va controcorrente

Miniera di Kooragang Island nel Nuovo Galles del Sud (Australia) © eyeweed, via Flickr

Nonostante i (deludenti) accordi raggiunti alla Cop26 di Glasgow, il governo di Canberra progetta nuove miniere e investimenti sui fossili ben oltre il 2050. La società civile, le associazioni e alcune imprese sono però un passo avanti e chiedono una svolta verso le energie rinnovabili

La Conferenza delle Nazioni Unite sul clima di Glasgow si è conclusa poche settimane fa con la richiesta formale a tutti i Paesi di “ridurre gradualmente” il ricorso all’energia prodotta attraverso l’uso del carbone. Una richiesta che il governo australiano sembra intenzionato a ignorare, spingendo sull’acceleratore per la realizzazione di 72 nuovi progetti per lo sviluppo di miniere (che si andranno ad aggiungere alle oltre 90 già attive nel Paese) con una produzione complessiva stimata in 528mila tonnellate. E che riverseranno in atmosfera 1,4 miliardi di tonnellate CO2 all’anno, denuncia il think tank Australia Institute nel report Undermining climate action: con 52 milioni di tonnellate legate alle emissioni domestiche e 1,3 miliardi di tonnellate legate alle esportazioni. Ai progetti per le miniere di lignite, se ne sommano altri 44 che riguardano l’estrazione di gas naturale. “L’espansione della produzione di combustibili fossili pianificata dall’Australia genera una quantità di emissioni pari a quella annuale di 200 centrali a carbone -commenta Rickie Merzian, climate & energy program director all’Australia Institute-. Ed è quasi il doppio rispetto all’impronta di carbonio generata dall’aviazione globale”.

Progetti che stridono con l’obiettivo annunciato a ottobre 2021 dal primo ministro Scott Morrison di “emissioni zero” per il Paese entro il 2050, cui non hanno fatto seguito impegni concreti per eliminare il carbone. Un piano “pieno di difetti”, scrive l’Australia Institute nel report, evidenziando la mancanza di obiettivi a breve o medio termine del “Net Zero 2050 Plan” e come questo sia basato “su speculazioni tecnologiche e compensazioni. Tuttavia, l’aspetto di gran lunga più eclatante è che (il piano, ndr)facilita l’espansione della produzione di combustibili fossili”. Nel documento approvato dal governo di Canberra, infatti, viene messo nero su bianco che l’Australia “non interromperà la produzione di carbone o di gas” e che l’attività di queste industrie continuerà “fino al 2050 e oltre”.

Le ragioni dietro la dipendenza dell’Australia dal carbone sono diverse, come spiega ad Altreconomia Glenn Walker, portavoce di Greenpeace Australia: “La prima è di matrice storica. Il nostro è un Paese che ha basato la propria economia prima sull’esportazione di prodotti agricoli e successivamente, negli ultimi 50-60 anni, sull’estrazione e l’export di minerali, carbone, gas. Molti governi, sia a livello statale sia a livello federale, hanno tratto beneficio dalle risorse provenienti dal settore minerario. Inoltre, le enormi risorse generate hanno reso l’industria del carbone particolarmente potente sulla scena politica. Per questo è stata in grado di proteggere efficacemente i propri interessi, svolgendo attività di lobby per evitare l’implementazione di politiche per il clima realmente incisive”. Inoltre, secondo il portavoce di Greenpeace, l’industria del carbone è riuscita a far passare nell’opinione pubblica un’immagine di sé abbastanza diversa dalla realtà, in particolare per quanto riguarda il suo impatto sull’occupazione: “Il settore occupa meno dell’1% della forza lavoro del Paese, anche se in alcune aree rurali l’incidenza è più elevata -spiega Walker-. Tuttavia molti australiani credono che si tratti del 10% o persino del 20% del totale”. Secondo una stima della BBC sono circa 40mila i lavoratori impegnati nell’industria del carbone: “Circa la metà dei lavoratori di McDonald’s in Australia”.

Oltre che con la storia, è necessario fare i conti con il “peso” del carbone sull’economia australiana. Secondo i dati del Dipartimento per l’industria, la scienza, l’energia e le risorse del governo le esportazioni sono pari a 192 milioni di tonnellate nel biennio 2020-2021 (in calo, anche per effetto della pandemia da Covid-19, rispetto alle 213 milioni di tonnellate del 2019-2020) per un valore stimato in 16 miliardi di dollari. Per il biennio 2022-2023 le previsioni di Canberra ipotizzano una crescita dell’export a 204 milioni di tonnellate e, grazie all’aumento previsto dei prezzi, all’incasso di 27 miliardi di dollari. Numeri che fanno dell’Australia il secondo esportatore mondiale (con il 21% della quota globale) preceduto solo dall’Indonesia. I principali acquirenti sono la Cina (con il 23% dell’export complessivo), l’India e il Giappone (entrambi con il 14%), Corea del Sud (9%) e Taiwan (6%).

L’enorme quantità di carbone esportato si traduce in altrettanto importanti emissioni di CO2, che però non vengono “contabilizzate” a Canberra. “Al nostro governo piace molto parlare della nostra piccola impronta ecologica per quanto riguarda le emissioni di carbonio, riferendosi però solo a quelle domestiche. In realtà, a causa del carbone e dei combustibili fossili che vendiamo ad altri Paesi,  l’impronta dell’Australia è molto più elevata -spiega Walker, citando uno studio del think tank Australian Institute-. Se sommiamo le emissioni di CO2 generate dal carbone venduto all’estero con le emissioni domestiche ecco che l’Australia si piazza al terzo posto, dietro Arabia Saudita e Russia”.

A fronte di un governo “fossile” e che continua a guardare al passato, la società civile, i sindacati e realtà imprenditoriali provano a esercitare pressioni sul il governo affinché ci sia un reale cambiamento. “Greenpeace in questi anni ha lavorato con alcune delle più importanti società di telecomunicazione, supermercati, catene commerciali; persino con alcune compagnie minerarie che sono i principali consumatori di elettricità in Australia. Molti hanno preso l’impegno di passare alle energie rinnovabili entro il 2025 -spiega Walker-. Siamo arrivati al punto in cui non solo i cittadini, ma anche le imprese chiedono un cambio di passo. Ma abbiamo molti politici recalcitranti”.

Una miopia che rischia di far perdere all’Australia la corsa per sfruttare al meglio le potenzialità economiche e i posti di lavoro che possono essere creati investendo sulle energie rinnovabili. Secondo uno studio curato dalla società Accenture e commissionato dal WWF in uno scenario globale “a emissioni zero” entro il 2050 l’export di carbone dall’Australia potrebbe subire un crollo dell’80%. “La transizione energetica mette a rischio alcune delle nostre esportazioni, ma apre anche la strada a nuove opportunità”, evidenzia lo studio. L’abbondanza di vento e l’elevata radiazione solare media per metro sono due fattori naturali che possono avvantaggiare il Paese nella produzione di energia rinnovabile; oltre alla presenza nel suo sottosuolo dei minerali (come il litio) necessari alla transizione energetica. Investire nel fotovoltaico e nell’eolico, nella riconversione dell’industria alla produzione tramite energia “verde” e nello sviluppo di tecnologie per la produzione del (discusso) idrogeno “verde” permetterebbero, secondo le stime dello studio di Accenture, di creare 395mila posti di lavoro e generare 89 miliardi di dollari di valore aggiunto lordo entro il 2040.

“Al governo chiediamo di non autorizzare più nuove miniere, ma di lavorare con le comunità locali per garantire ai lavoratori e alle imprese del settore una transizione giusta e sostenibile. In questo modo potremo fermare l’esportazione di carbone e iniziare a esportare energia da fonti rinnovabili -sottolinea Walker-. L’Australia deve cambiare strada e abbandonare i combustibili fossili per investire sulle energie rinnovabili”. Un cambiamento necessario anche per tutelare uno dei suoi patrimoni naturalistici più noti al mondo, che attrae ogni anno milioni di turisti. “Nuotare tra i pesci della Grande barriera corallina è qualcosa di sbalorditivo -conclude Glenn Walker-. Ma la sopravvivenza di questo habitat unico al mondo è legata al cambiamento climatico: i coralli stanno diventando bianchi e questa meraviglia naturale rischia di morire. E questo è causato anche dalle pessime politiche adottate dai politici australiani, che politici parlano della necessità di mantenere in vita l’economia del carbone e al tempo stesso, oltre alla barriera corallina, rischiano di uccidere anche l’economia legata al turismo”.

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