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Ambiente / Opinioni

Dalle storie dei luoghi passa il buon governo del territorio

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Per l’ambientalista Berry, l’industrialismo separava le vicende individuali delle persone e dei territori. Dobbiamo riunirle. La rubrica del prof. Paolo Pileri

Tratto da Altreconomia 230 — Ottobre 2020

Il nostro Paese nasconde nel suo ventre delle spettacolari testimonianze di intelligenza e resilienza pensate secoli e secoli fa. A Ponza ne ho scoperta una singolare. Sulla cavata di Vitiello […] vi è la crosta tufaceo-calcarea stratificata, che assorbendo le acque piovane, le trapela per istillicidio, e sulla detta calcaria è incavata la località per dar campo al suditorio. Un formale lungo palmi 848 e largo once 15, per le viscere di quel colle forma il ramo centrale, da cui partono come raggi altri 14 consimili forami, svariati in direzione e lunghezza, e taluni fino a palmi 114, mentre quei del lato esterno rinnovano l’aria con opportune aperture. In siffatti scolatoi distilla ottima acqua, che radunata nel tronco per due canali si scarica porzione in occidente, e l’altra precipita nel pozzo di palmi 20, e da quivi per formale lungo palmi 3000, dirigesi al lato opposto Cala d’inferno […]. Accumulava ivi in opportuna vasca molt’acqua […]. Tributava nel suo corso per le abitazioni ove s’imbatteva, senza privarne a quegli situati presso l’attuale porto. […] Tuttavia imprigiona l’acqua di circa 20 secoli”.

200 anni fa a Ponza, straordinarie opere nel sottosuolo raccoglievano ingegnosamente le acque piovane. Oggi non più. Storie da rileggere e amare: il sale della transizione ecologica che cerchiamo

Non si tratta solo di un documento storico, ma anche di una testimonianza politica visto che a scriverlo è stato proprio un sindaco dell’isola a metà Ottocento: Giuseppe Tricoli. Un uomo che scriveva testi intitolati “Piaghe sull’Amministrazione Municipale di Ponza” (1851). Una descrizione minuziosa che non onorava solo la precisione dello scrivente, ma serviva soprattutto a dare al lettore la misura gigantesca del danno irreparabile che la cattiva amministrazione di allora stava compiendo non tutelando un’opera immensa e immensamente vitale per la vita isolana. Poche righe che, lette oggi, sono anche una testimonianza di quanto un tempo sapevamo adattarci bene alle rigidità dei climi e della natura generando opere ciclopiche eppur innocue: gallerie, canali, drenaggi e cisterne scavati a mano per secoli assecondando pieghe e fratture della roccia, senza torcere un capello all’ambiente. Oggi quel sistema non c’è più. E con la sua scomparsa anche l’acqua potabile se ne è andata da Ponza. A giorni alterni arriva una nave cisterna, costosissima, che pompa acqua nella rete consegnando agli isolani una bolletta molto salata.

Quando a Ponza Luigi mi ha fatto leggere questa storia incredibile e meravigliosa, mi sono ricordato una frase di Wendell Berry, mitico coltivatore e ambientalista americano: “Uno dei principali risultati dell’industrialismo è la separazione di persone, luoghi e prodotti dalle loro storie individuali. Più diventiamo parte dell’economia industriale e più ignoriamo la storia delle nostre famiglie, del luogo in cui viviamo e dei nostri cibi”. È così anche oggi: uno dei guasti più gravi e meno riconoscibili che ci disorienta senza neppur che lo sappiamo sta proprio qua, nel non saper più vedere nella storia e nelle storie locali -e sono tante in Italia- gli ingredienti sani per disegnare il buon governo del territorio. Invece le riduciamo a inutili aneddoti, buone solo per impressionare il turista. Se reimparassimo a soffermaci e a rileggerle, incrociandole con le domande di questo inquieto presente, impareremmo sì a stare in equilibrio con la natura. Anziché fargli fare la fine ingiusta di chi le storie del passato se le mette sulle spalle come a illuminare cammini già fatti, potremmo usarle per rischiarare i nostri passi evitando di inciampare nel pressapochismo sciupone di questo avido e miope modernismo.

Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “100 parole per salvare il suolo” (Altreconomia, 2018)

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