Esteri / Reportage
Spose liberate: una nuova vita per le giovani donne del Bangladesh
Reportage dai distretti di Khulna e Gazipur, dove un progetto della ong “Terre des Hommes” punta a offrire un futuro alle donne del Paese asiatico costrette, ancora adolescenti, a unirsi a mariti violenti, e dopo poco abbandonate
Kulsum Pervin aveva solo 12 anni quando la sua famiglia l’ha costretta a sposarsi. “È stato un disastro, il matrimonio ha rovinato la mia vita”. La giovane donna -oggi ha 25 anni e una figlia di otto- parla con voce bassa. Siamo a Gazipur, città a una ventina di chilometri a Nord di Dacca, in uno dei principali distretti dell’industria tessile del Bangladesh. Qui Kulsum ha avuto la possibilità di dare una svolta alla sua vita. “Mio marito era un contadino. All’inizio la situazione non era male. Poi però mia suocera ha iniziato a fare pressioni su di lui perché divorziasse e si risposasse con una donna più bella”. Anche Rabeja, 29 anni, è divorziata: “Mi sono sposata a 16 anni, mio marito mi picchiava e anche mio suocero alzava le mani su di me”, racconta mentre abbraccia le due figlie.
Accanto alle due giovani, sedute su una stuoia verde, una decina di altre donne che hanno da poco terminato l’iftar, il pasto serale che segna il termine del digiuno, durante il mese di Ramadan. Hanno storie simili alle spalle. Vengono da diversi villaggi del distretto rurale di Khulna, nel Sud-Ovest del Paese, alcune di loro sono Dalit e appartengono a una delle comunità più povere e marginalizzate. Tutte si sono sposate giovanissime: le loro famiglie non potevano permettersi di mantenerle o di farle studiare. In una società in cui il ruolo della donna è limitato esclusivamente alla cura della casa e dei figli e il fatto di lavorare fuori casa rappresenta un tabù molto difficile da infrangere per chi non è sposata, il matrimonio rappresenta la sola alternativa praticabile per le famiglie più povere. Anche quando la futura sposa ha meno di 18 anni, limite stabilito per legge.
Un destino che, nel Paese asiatico, riguarda milioni di bambine. Secondo le stime di “Girls not brides” (un’organizzazione che riunisce 700 organizzazioni di oltre 85 Paesi) sono 3.931.000 le ragazze di età compresa tra i 20 e i 24 anni che si sono sposate prima dei 18 anni (pari al 59% del totale). Di queste, 1.360.000 avevano meno di 15 anni al momento del matrimonio (il 22%). In questa triste classifica solo l’India, conta numeri più elevati, con oltre 26 milioni di spose bambine.
L’Agenda per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite fissa tra gli obiettivi da raggiungere entro il 2030 anche l’eliminazione dei matrimoni precoci che, per Unicef (l’agenzia delle Nazioni Unite per la protezione all’infanzia) rappresentano una violazione dei diritti umani: le spose bambine perdono il diritto al gioco e all’istruzione, sono particolarmente esposte al rischio di subire violenze e maltrattamenti. Infine, secondo le stime dell’Organizzazione mondiale per la sanità le complicazioni legate alle gravidanze precoci e al parto rappresentano la principale causa di morte tra le giovani di età compresa tra i 15 e i 19 anni.
Ad aggravare ulteriormente le condizioni di vita di queste donne, si sono poi aggiunti divorzi e separazioni (quasi sempre voluti dai mariti) che le hanno costrette a tornare dai genitori, facendole precipitare ancora di più nella spirale della povertà. Chi ha provato a cercare lavoro nei propri villaggi d’origine ha trovato solo impieghi saltuari nei campi con paghe bassissime: una donna guadagna tra i 120 e i 150 taka al giorno (l’equivalente di 1,2 – 1,5 euro) contro i 200 taka di un uomo. “Le donne divorziate vengono considerate un peso dalle famiglie d’origine, non hanno nemmeno i soldi per sfamare i propri figli, non godono di nessun rispetto. La madre di una di queste giovani le ha addirittura definite ‘morti che camminano’”, spiega ad Altreconomia Ainoon Naher, docente di Antropologia presso la Jahangirnagar University di Dacca.
Oggi la vita di queste donne è radicalmente cambiata. Hanno lasciato i loro villaggi per trasferirsi a Gazipur e lavorano in una fabbrica tessile dove guadagnano uno stipendio con cui riescono a mantenere la propria famiglia. “Il lavoro è faticoso, ma ogni mese mi pagano 8.500 taka, 12.500 con gli straordinari”, spiega Rabeja che, grazie a questi soldi, mantiene le figlie, paga le cure mediche per la madre malata e ha aperto anche un conto corrente dove sta risparmiando per acquistare un pezzo di terra quando tornerà al villaggio. Tutte le lavoratrici che abbiamo incontrato riferiscono di percepire stipendi in linea con il salario minimo fissato dal governo che, nel 2018, lo ha portato da 5.300 taka a 8.000 taka al mese per i lavoratori non qualificati. Lontani però dai 16.000 chiesti, in fase di contrattazione, dai sindacati.
Le lavoratrici sono consapevoli delle fatiche che affrontano ogni giorno e non nascondono la frustrazione legata al fatto di dover lasciare i propri figli con i genitori: “Ma venire qui era l’unico modo. Prima dovevamo chiedere soldi in prestito per vivere, adesso siamo indipendenti, aiutiamo le nostre famiglie e possiamo decidere cosa fare della nostra vita”, conclude Rabeja.
“Solo la necessità di far fronte a un momento di estrema difficoltà ha spinto queste donne a rompere le norme di genere tradizionali. La scelta di intraprendere un percorso migratorio, che ha portato al miglioramento della condizione economica, ha rappresentato un passaggio fondamentale per rompere il tabù della mobilità sociale e innescare un cambiamento”. Valentina Lucchese è la country representative per il Bangladesh di “Terre des Hommes Italia”, che tra il 2016 e il 2018 ha implementato il progetto “Jukta Hoe Mukta” (“United we stand”) per favorire percorsi di migrazione interna sicura per le donne più vulnerabili del distretto di Khulna.
“Con questo progetto tentiamo di portare avanti una ri-negoziazione delle norme di genere in senso egualitario, sradicando l’idea che la donna sia solo sposa e madre” – Valentina Lucchese
A partire dal 2016, 507 donne che hanno scelto di affrontare il percorso migratorio hanno seguito un corso di formazione della durata di due mesi, di queste, 440 sono state assunte presso aziende che rispettano adeguati standard di sicurezza sul lavoro. Inoltre, il progetto ha visto l’attivazione di sei “Caffè per le donne”: spazi protetti in cui le lavoratrici possono incontrarsi, trascorrere tempo assieme per rilassarsi e al tempo stesso ricevere informazioni sui loro diritti e in materia di salute.
“Con questo progetto tentiamo di portare avanti una ri-negoziazione delle norme di genere in senso egualitario, sradicando l’idea che la donna sia solo sposa e madre -spiega Valentina Lucchese-. Noi lo facciamo offrendo a queste giovani donne gli strumenti e la consapevolezza per entrare nel mondo del lavoro: l’empowerment economico è l’elemento centrale per cambiare il modo con cui vengono giudicate dalla loro comunità. Anche i loro genitori, ora guardano alle loro figlie con maggiore rispetto, perché hanno ottenuto indipendenza e autonomia, anche economica”.
Per Rabeja, Kulsum e le altre giovani donne del progetto “Jukta Hoe Mukta” il matrimonio precoce ha rappresentato il momento “che ha distrutto le nostre vite”. Chi ha figlie femmine è determinata nel continuare a lavorare per garantire loro la possibilità di ottenere una buona istruzione e sfuggire l’incubo del matrimonio precoce.
Negli ultimi anni, il governo del Bangladesh ha sottoscritto una serie di impegni per contrastare il matrimonio precoce. Il “Child marriage restraint act”, approvato nel 2017, fissa rispettivamente a 18 e 21 anni l’età minima per il matrimonio di ragazze e ragazzi. Solo in alcuni “casi particolari” -che però non vengono specificati nel testo della legge- è permesso il matrimonio per le ragazze minorenni con il consenso dei genitori. Il timore, espresso da molte ong, è che questa clausola possa essere utilizzata per legittimare il matrimonio tra una ragazza vittima di stupro e il suo aguzzino.
Il governo ha poi attivato un numero verde dedicato alla denuncia dei casi di matrimonio precoce e ha istituito un database online in cui vengono registrati tutti i certificati di nascita, che devono essere controllati dalle autorità civili e religiose nel momento in cui si avviano le pratiche per un matrimonio. A questo si aggiunge l’istituzione dei Comitati per la protezione dell’infanzia, che vengono attivati a livello locale nei distretti e nelle città. “Il Bangladesh ha un buon quadro legislativo, che però non viene implementato adeguatamente -spiega Lucchese-. Il compito delle ong negli ultimi anni è stato quello di lavorare con il governo per attivare questi meccanismi. I Comitati per l’infanzia, ad esempio, funzionano bene dove le organizzazioni non governative si sono impegnate a lavorare con le istituzioni locali per renderli operativi”. A questo impegno si è aggiunto il “National plan of action (NPA) to end child marriage”, lanciato nell’agosto 2018 dal governo del Bangladesh. L’obiettivo è quello di azzerare i matrimoni che coinvolgono bambine con meno di 15 anni e ridurre di un terzo quelli che coinvolgono ragazze con meno di 18 anni entro il 2021. Mentre l’azzeramento totale dovrà essere raggiunto entro il 2041.
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