Cultura e scienza / Intervista
Sofia Borri. “Figlie”: memoria dei desaparecidos
Dall’incontro tra Sofia Borri e Sara Poma è nato un podcast che in sei puntate narra un pezzo tragico della storia dell’Argentina. Il racconto di “una figlia con due madri” dà voce anche a ex militanti che hanno combattuto contro il regime
“Nelle sei puntate del podcast sono condensati oltre 40 anni di percorso esistenziale, intrecciando dimensione pubblica, storica, politica e familiare. Sono cresciuta consapevole di portare con me un ‘tesoro’ con tanti punti di accesso e che, se sbrogliato, sarebbe diventato un filo lunghissimo”, racconta Sofia Borri. Aveva due anni nel febbraio del 1978, quando lei e sua madre Silvia Roncoroni, militante del Partido comunista marxista leninista, vennero sequestrate, a Mar del Plata, in Argentina, negli anni della dittatura militare durata tra il 1976 e il 1983. Silvia è una dei 30mila desaparecidos. Sofia venne liberata dopo una settimana e l’anno successivo sarebbe fuggita dal Paese con il padre, rifugiati politici prima in Svezia e quindi in Italia, dove vive da allora.
Il podcast a cui fa riferimento si chiama “Figlie”, ed è uscito nel maggio 2023. L’incontro tra Sofia e la voce di Sara Poma era avvenuto nel 2020, con l’ascolto di “Carla”, il podcast che quest’ultima ha dedicato alla nonna, a partire da un quaderno ritrovato, in cui la donna nata negli anni Venti del Novecento, raccontava la sua vita. “Ci ho messo un bel po’ a scriverle di voler realizzare un progetto per recuperare la memoria di mia madre. Ho scoperto che anche lei aveva vissuto un lutto materno e mi ha convinto la sua proposta di indagare insieme il tema e lavorare sulla memoria delle nostre madri. Da questa esperienza ho imparato che a volte ci incartiamo in passaggi di elaborazione della nostra vita, facendone un tema intimo, mentre il confronto con altri è una strada generativa, che ti fa fare passi in avanti”.
Sofia, com’è nata in te l’urgenza di realizzare “Figlie”?
SB La maternità è stata un momento cardine. I figli ti obbligano a dire da dove vieni, chi sei. Le mie figlie hanno creato un legame con Silvia. Nei primi anni, ho vissuto un’esperienza mai provata prima, nella quale la visualizzavo. Ricordo che quando Amanda, che oggi ha dieci anni, aveva sette mesi la guardavo dormire e immaginavo mia madre che faceva lo stesso. Potevo immedesimarmi. Con la maternità ho sentito il tema del suo corpo: non l’avevo mai pensata di carne o ossa, un po’ perché non ne ho ricordi, un po’ perché non c’è una tomba. Pensare al suo corpo ha portato a pormi domande banali, se aveva un colore preferito, come stava seduta. Ho avuto anche la sensazione che fosse troppo tardi per ricostruire, per la distanza, per il dolore, per la fatica di rievocare quel periodo.
Il lavoro fatto con Sara Poma inserisce una storia personale in una dimensione collettiva.
SB Siamo andate a raccontare una storia lontana nel tempo e nello spazio, rendendo “Figlie” una sorta di road-podcast. Tramite le voci degli ex compagni di partito di mia madre, dei militanti sfuggiti ai sequestri e con il racconto del nostro viaggio in Argentina, abbiamo reso la narrazione più universale. La mia vita, del resto, è stata un continuo dialogo tra personale e collettivo: ho vissuto una memoria alimentata sempre dalla dimensione militante di Silvia. Una memoria faticosa poiché privata di qualcuno, che è in una sospensione, una presenza che è una assenza. I miei nonni e tutte le persone intorno a me facevano fatica a chiudere quel capitolo, passare al ricordo di una persona non tornerà più. Un altro piano che è presentato è quello dell’esilio: io sono cresciuta lontana da quei luoghi, dal quotidiano di quella storia dolorosa e viva. Così la tendenza a farne un simulacro è forte. Immagini e parli di un mondo che è estremamente distante.
Le tue figlie, racconti, ti hanno aiutato ad accettare con maggiore serenità la tua condizione, quella di una bambina cresciuta con due madri.
SB Solo adesso riesco a chiamare mamma Nicoletta, che è stata la compagna di mio padre in Italia ed è la madre delle mie tre sorelle. Ci ho messo anni di analisi per accettare di avere due mamme, lei per tutta la vita era stata “la Nico”. Le mie figlie, che con meraviglia mi hanno detto “tu allora hai due mamme”, mi hanno permesso di intravedere un racconto d’amore al posto di un racconto di morte. Mi hanno spinto a far diventare Silvia una di noi. Adele ha i capelli biondi di mia madre, così mentre l’aiuto a lavarsi ci capita di sorridere del fatto che su pelo es color oro, como el de la abuela Silvia. Lei oggi mi dice “a me dispiace non aver potuto sentire la sua voce” e so che in qualche modo dobbiamo reimpastare le cose orribili del passato dentro una vita che sta crescendo e che se la deve portare dietro, come un ingrediente vitale.
Nei loro confronti, mi sono sentita responsabile di questa traduzione. A partire dall’esigenza di trovare le parole per spiegare a una bambina di due anni che in quegli anni in Argentina c’era una guerra. Fare dei figli per me è stato un modo per affrontare questa storia: sapevo che mi avrebbe messo in contatto con Silvia, oltre che con Nicoletta. Le ho fatte tardi, ero angosciata dall’idea di non essere lucida. Simone, il mio compagno, è stato il primo ad ascoltare il podcast e tra le tante cose mi ha detto: “Sei stata coraggiosissima a diventare madre”. Da mamma, l’idea che non crescerai tua figlia e lo farà qualcun altro è intollerabile perciò, forse, questo lavoro sulla memoria si sarebbe potuto fare solo nel momento in cui saremmo state madri tutte e tre, Silvia, Nicoletta e io.
Voci importanti del podcast sono alcuni vecchi militanti, compagni di lotta di tua madre. E poi le associazioni e i gruppi che hanno lavorato per non far cadere nell’oblio ciò che è successo.
SB Ogni volta che andavo in Argentina, in media una volta ogni due anni, mi facevo raccontare qualcosa, ma solo lo sforzo di immaginare persone che avrebbero scoperto la nostra storia mi ha regalato l’energia e la lucidità per questo racconto, costruito grazie al dialogo con Sara. Ho scoperto cose che non sapevo, ho visitato la casa dove eravamo in vacanza quando siamo state sequestrate, non l’avevo mai fatto. Nel 1993 e nel 1995, a 17 e 19 anni, ho fatto due lunghi viaggi nei miei anni formativi, quelli del liceo. Andavo in Argentina mentre era inverno, stavo tra Buenos Aires e La Plata, che è la nostra città, esplorando una parte militante di attivismo. Stavo con le Madres de Plaza de Mayo, che conoscevo da quando sono bambina, lavoravo con loro all’archivio, in un periodo in cui l’Argentina era nel pieno sviluppo di un sistema neoliberista, in cui si respirava impunità mentre la lotta per la memoria e i diritti umani era trincea. Quella era anche la mia storia, qualcosa di cui mi sentivo privata.
Quando nel 1995 ha preso vita Hijos ho incrociato il movimento quasi subito a La Plata. Erano, come me, figli di desaparecidos, che mi hanno accolto a braccia aperte, ero “tana”: l’italiana, ma comunque una di loro. In Italia questo mi è sempre mancato, la mia storia non è mai entrata in una dimensione pubblica. Questo incontro, potente, mi ha scisso: loro stavano crescendo in Argentina, nelle contraddizioni e tra le storture di quel Paese, matto e disperato. Io vivevo nel primo mondo. La mia era una storia di vittima, universalmente riconosciuta, ma solitaria. In Argentina, invece, tu facevi parte di un dibattito pieno di contraddizioni, alcuni affermavano che i desaparecidos qualcosa avevano pur fatto, per finire sequestrati, che le nostre madri e i nostri padri erano dei terroristi. Crescere lì con i nonni, persone anziane che non si sono mai riprese, era stato senz’altro più faticoso. Presi parte a laboratori di scrittura, a manifestazioni, a escrache. Ho alcune amiche molto strette da allora. Ascoltando il podcast, una volta che è stato pubblicato, mi sono resa conto che dà valore a trent’anni di relazioni che ho costruito in Argentina.
Tra i luoghi che visitate c’è anche il liceo frequentato da tua madre. Qual è, oggi, in Argentina, il rapporto con la memoria di quel periodo storico?
SB Al liceo Victor Mercante di La Plata c’è un archivio che ricostruisce i dossier scolastici dei desaparecidos tra allievi e personale docente e non della scuola, e poi le foto nell’aula magna. Mi ha colpito l’incontro con Ines, una professoressa di storia: c’è un sacco di gente, come lei, che lavora alla costruzione di una memoria collettiva di quel periodo pur non avendone esperienza diretta, ma sentendo che è vitale per la costruzione di un’Argentina un po’ migliore. Mi ha detto: “Tu non sai che cosa significa per me incontrare la figlia di Silvia”. Questo è fondamentale in un Paese in cui i desaparecidos sono ancora nelle liste elettorali, perché per qualcuno non è successo niente. Quando qualche anno fa sono andata al consolato, in Italia, a fare dei documenti per le mie figlie, ho scoperto che “lì” mia mamma era viva, che Silvia Roncoroni aveva ormai 76 anni e non più 35, l’età che aveva quando è scomparsa.
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