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Coronavirus in Siria: non ci sono i mezzi per rispondere a una possibile emergenza
Il Paese, entrato nel decimo anno di guerra, non ha ancora registrato alcun caso ma il timore dello scoppio dell’epidemia è diffuso. Le capacità di far fronte all’emergenza sono ridotte e solo metà degli ospedali funziona regolarmente. La situazione più difficile è nei campi profughi e nel Nord-Est della Siria. Le testimonianza della Mezzaluna rossa curda e del Rojava Infomation center
“Catastrofico” è l’aggettivo con cui viene descritta la sempre più probabile diffusione del Coronavirus in Siria. Il Paese, entrato nel suo decimo anno di guerra, non ha ancora registrato alcun caso di Covid-19 ma il timore dello scoppio dell’epidemia è diffuso -dagli abitanti della capitale fino ai rifugiati che affollano i campi profughi del Paese-. Secondo quanto riportato dall’OMS, infatti, le capacità della Siria di far fronte all’emergenza Covid-19 sono fortemente ridotte a causa del conflitto ancora in corso, solo il 50% degli ospedali funziona regolarmente e il personale medico deve far fronte alla carenza di medicinali e macchinari necessari per la cura del virus. Ma se la situazione nella parte del Paese controllata dal presidente Bashar al-Assad risulta critica, nei campi profughi o nel Nord-Est della Siria la diffusione del Covid-19 desta ancora più preoccupazione.
Come spiega ad Altreconomia Ofe, volontaria della Mezzaluna rossa curda e rifugiata del campo profughi di Shehba, nel Nord-Ovest del Paese non ci sono i mezzi per rispondere a una possibile emergenza da Coronavirus. “Non abbiamo mascherine o prodotti sanitari di base, non ci sono laboratori in cui analizzare i tamponi, né centri specializzati in cui isolare i pazienti che potrebbero risultare positivi. Sono state prese alcune misure precauzionali, ma non sono sufficienti. Il campo è sovraffollato per cui anche solo imporre delle distanze di sicurezza è impossibile”. Dal dicembre scorso al marzo di quest’anno circa un milione di persone sono state costrette ad abbandonare le proprie case e a trovare rifugio nei campi profughi del Nord-Ovest a causa degli scontri tra le forze governative -supportate da Russia e Iran- e le milizie filo-turche per il controllo di Idlib. “Gli aiuti umanitari non riescono a raggiungerci. Siamo abbandonati a noi stessi”.
A temere gli effetti del contagio da Coronavirus è anche l’Amministrazione autonoma del Nord-est della Siria, spiegano dal Rojava Infomation center (Centro informazioni del Rojava, Ric). A minare ulteriormente le capacità di risposta delle autorità curde è stata prima di tutto l’occupazione di una parte del Rojava a seguito dell’operazione “Sorgente di pace” lanciata il 9 ottobre da Ankara. Attualmente la fascia di territorio compresa tra Til Temer e Ain Issa è controllata dalle milizie filo-turche ed è inaccessibile per la popolazione curda. “La Turchia ha bombardato l’unico ospedale capace di analizzare i tamponi per il Coronavirus in tutta l’area e non possiamo più raggiungere le strutture presenti nella zona di confine con la Turchia. L’unico modo per sapere se un soggetto è positivo o meno è inviare il test a Damasco e attendere una risposta, ma aiutare l’Amministrazione autonoma non è tra le priorità del regime siriano. Per Assad noi siamo il nemico”. Fino a metà marzo l’Amministrazione è riuscita a far arrivare nella capitale siriana solo quattro tamponi, un risultato molto deludente se si pensa che in Rojava vivono almeno due milioni di persone. “I test sono praticamente fermi e anche se alcuni dottori ci dicono che secondo loro ci sono già dei casi nel Nord-est non abbiamo modo di saperlo con certezza”.
Il timore del personale medico tanto in Rojava come nel resto della Siria è che il governo stia nascondendo i casi di Covid-19 per non scatenare il panico tra la popolazione, ben consapevole della scarsa capacità di rispondere a una simile emergenza. A sollevare dei dubbi sull’assenza di contagiati è anche l’Osservatorio siriano per i diritti umani, che ha segnalato la presenza di persone affette da Covid-19 nelle province di Tartus, Damasco, Homs e Latakia, nella parte Ovest del Paese. La Siria non ha infatti bloccato i collegamenti con l’Iran -lo Stato mediorientale con il maggior numero di contagi- e ciò potrebbe aver aperto la strada al virus nel Paese
Un terzo elemento che mette a dura prova l’Amministrazione autonoma è inoltre l’embargo imposto dalla Turchia grazie anche al regime siriano e all’Onu. “Certo, Ankara non permette agli aiuti umanitari di attraversare il confine, ma sono state le Nazioni Unite a chiudere il corridoio umanitario di Yaroubiyeh, l’unico in tutto il Nord-Est della Siria” che collegava il Rojava con la regione curda irachena. A dicembre, la Cina e la Russia hanno infatti posto il proprio veto al rinnovo della Risoluzione 2165 che garantiva l’operatività di quattro corridoi umanitari al confine con Turchia, Iraq e Giordania. “Gli aiuti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità adesso dovrebbero arrivare nel Nord-est passando per Damasco, ma ci vorrà almeno una settimana prima che mascherine e prodotti sanitari di base giungano fin a noi”.
Secondo il Ric, il relativo isolamento del Rojava rallenterà l’arrivo del virus. “Intanto le autorità locali stanno lavorando duramente per preparare gli spazi per la quarantena negli ospedali non ancora sequestrati o messi fuori uso dalla Turchia e hanno lanciato campagne di prevenzione e informazione nella regione. Le scuole sono chiuse, gli eventi pubblici sono stati cancellati e l’unico valico di frontiera con l’Iraq è ancora aperto ma il traffico è fortemente limitato”. Ma si tratta di accorgimenti che serviranno bene poco se il virus dovesse diffondersi nella regione. “Senza macchine per effettuare i test, senza ventilatori e con gli ospedali numericamente ridotti il Coronavirus avrà un effetto devastante”.
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