Ambiente / Attualità
Sicurezza stradale, l’Italia si appresta a varare un piano “auto-centrico”
Mentre l’Europa punta su “zone 30” e riduzione dei veicoli per abbattere gli incidenti, nel nostro Paese il ministero delle Infrastrutture lavora a un piano che scarica la responsabilità sugli “utenti deboli”. “Una strada sbagliata” segnala la Federazione italiana ambiente e bicicletta
Mentre in Europa si spinge sulla riduzione del numero delle auto nei centri urbani e sulla moderazione della velocità (puntando in particolare sulla creazione di “zone 30″) l’Italia si appresta a varare un Piano nazionale per la sicurezza stradale (Pnss) in netta controtendenza. “Si tratta di un Piano molto ‘auto-centrico’. Come se la strada fosse ad appannaggio esclusivo delle automobili e tutti gli altri utenti della strada dovessero, di conseguenza, usare adeguate cautele per evitare gli incidenti”, spiega Raffaele Di Marcello, componente del centro studi Fiab-Federazione italiana ambiente e bicicletta. “Sappiamo invece, perché ce lo dicono i numeri, che a causare il maggior numero di incidenti sono proprio i comportamenti degli automobilisti”.
Il Piano nazionale per la sicurezza stradale (Pnss) punta a dimezzare il numero di vittime della strada e il numero dei feriti gravi a seguito di incidenti entro il 2030. “L’intento -si legge nel documento redatto dal ministero delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili (Mims)- è passare dalle 3.029 vittime stimate nel 2020 a meno di 1.515 alla fine dell’orizzonte temporale del Pnss, nel 2030. Inoltre, a questo si aggiunge l’obiettivo generale di dimezzare entro il 2030 anche il numero di feriti gravi”. Il Piano, che è stato trasmesso lo scorso novembre alle Camere, indica le aree di intervento per il prossimo decennio in materia di sicurezza stradale, individuando linee strategiche per le categorie a maggior rischio: bambini, anziani, pedoni, ciclisti e motociclisti. “Ma secondo le linee guida del Pnss la responsabilità della sicurezza è tutta a carico loro: un’impostazione inaccettabile”, denunciano diverse associazioni attente alla mobilità sostenibile (tra cui la Fiab, le reti Salvaciclisti di Roma e Bologna, Napoli Pedala Bike4City e molte altre), Greenpeace Italia e Cittadini per l’aria riuniti nel Coordinamento associazioni e movimenti cicloattivisti e ambientalisti. La “cornice del Piano -fanno notare le associazioni- è quella della deresponsabilizzazione degli utenti forti, riconducendo il fattore ‘errore umano’ in fatalità, nella previsione, e nella rassegnata accettazione, che tali conducenti siano necessariamente distratti”.
Al fine di tutelare gli “utenti vulnerabili” il Piano elaborato dal Mims punta quindi sugli strumenti di protezione “passivi”. Nel caso dei bambini, ad esempio, le linee di intervento strategiche prevedono di favorire l’uso di sistemi di ritenuta e protezione (come il casco in bicicletta) “intervenendo sulle norme e sulla loro applicazione” e “aumentare la visibilità dei bambini a piedi e in bicicletta” in particolare nei percorsi casa-scuola. Anche per i ciclisti si pone l’accento sull’esigenza di “aumentare la visibilità e la protezione” di chi usa la bicicletta e di “favorire l’uso dei dispositivi di protezione (…) attraverso disposizioni per la loro diffusione”. Oltre alla necessità di “responsabilizzare i ciclisti affinché prendano le opportune precauzioni per evitare incidenti e lesioni attraverso campagne di sensibilizzazione” e “contrastare i comportamenti a rischio dei ciclisti”.
“Nessuno è contrario all’uso del casco come dispositivo di protezione individuale, ma deve essere chiaro che i caschi omologati per i ciclisti proteggono dalle cadute e dagli impatti fino ai 25 chilometri orari: purtroppo, nel caso di impatto con un’automobile che viaggia a velocità elevata non c’è casco che tenga -aggiunge Di Marcello-. Introdurre l’obbligo a indossare il casco non solo non avrebbe impatti sulla sicurezza dei ciclisti, ma l’esperienza dei Paesi in cui l’obbligo è stato inserito ha reso evidente che lo stesso dissuade dall’uso della bicicletta”.
Alla luce di quanto contenuto nel Piano, le associazioni riunite nel Coordinamento hanno inviato un documento al ministro Enrico Giovannini in cui chiedono una revisione del documento denunciandone l’impostazione di fondo, basata sulla “colpevolizzazione delle vittime” degli incidenti stradali a fronte di “una deresponsabilizzazione” di chi invece i sinistri li causa.
I dati disaggregati recentemente messi a disposizione dalla Commissione europea (relativi al 2019, ultimo anno per cui sono disponibili) mostrano in maniera evidente come gli incidenti mortali degli “utenti vulnerabili” si verificano nella stragrande maggioranza dei casi per collisioni che coinvolgono auto e camion. Su un totale di 4.628 pedoni che hanno perso la vita a seguito di un incidente stradale nel 2019, ben 3.200 sono deceduti a seguito dell’impatto con un’automobile e più di 500 per l’impatto con un camion. Mentre nel caso dei ciclisti, su un totale di oltre duemila vittime, la metà ha perso la vita a seguito dell’impatto con un’autovettura.
Inoltre, proseguono le associazioni, nel documento del ministero del Trasporti “non viene sostenuta a sufficienza la necessità di un’azione prioritaria nel limitare il numero e la velocità dei veicoli a motore, né un adeguato incremento delle reti ciclabili e delle aree pedonali e una migliore gestione degli spazi pubblici a favore delle persone”. Un’ulteriore carenza del Piano, sottolineano le associazioni, è il non aver individuato “la riduzione della velocità tra le misure prioritarie per garantire alla sicurezza di tutti gli utenti della strada”.
Camera e Senato hanno accolto alcune delle proposte avanzate dalle associazioni. In particolare, il documento elaborato da Palazzo Madama raccomanda “di approfondire gli aspetti che possono apparire come una ‘colpevolizzazione’ degli utenti più vulnerabili e una ‘deresponsabilizzazione’ dei conducenti dei veicoli a motore”. Per Di Marcello si tratta di indicazioni utili “a correggere la rotta verso un provvedimento legislativo più consono a garantire una reale sicurezza per tutti gli utenti della strada, ma troppo ‘timide’ verso un Piano che necessiterebbe di norme più stringenti in merito alle priorità di intervento, riconoscendo chiaramente che la quasi totalità degli incidenti stradali è causata dai mezzi motorizzati per il mancato rispetto, da parte dei conducenti, delle norme del codice della strada e degli elementari principi di prudenza”.
In Europa la direzione è un’altra. Da Parigi a Berlino, da Madrid a Londra, da Amburgo a Graz sono ormai decine le città europee che hanno puntato nettamente sulla riduzione della velocità nei centri urbani. Il caso più recente in tal senso è quello di Bruxelles, diventata “zona 30” dal primo gennaio 2021 e che nei primi sei mesi dell’anno ha registrato un calo del 20% degli incidenti rispetto alla media del periodo 2016-2020. Mentre il numero di morti e feriti gravi è diminuito del 25% nello stesso periodo. A questa tendenza, si unisce una risoluzione del Parlamento europeo (approvata a inizio ottobre con 615 voti favorevoli e solo 24 contrari) per abbassare a 30 chilometri orari il limite di velocità in tutte le aree urbane.
“Moderare la velocità delle automobili nei centri urbani significa permettere a più utenti di poter condividere la sede stradale in sicurezza -conclude Di Marcello di Fiab-. Si tratta di un intervento fondamentale per garantire la sicurezza di tutti gli utenti deboli della strada: non si capisce perché si chieda ai monopattini di ridurre la velocità dai 25 ai 20 chilometri orari ma lo stesso non si possa fare per le automobili. Nel nostro Paese siamo ‘drogati’ di mobilità automobilistica e non riusciamo a vederne i limiti: occorre un cambio di mentalità che ci permetta, tra l’altro, di renderci conto che già ora in città la tanto decantata efficienza dell’automobile è un’illusione, con velocità medie bassissime, anche a causa dell’uso indiscriminato del mezzo motorizzato”.
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