Ambiente / Opinioni
Si continuano a costruire centri commerciali dentro le anse fluviali. Il caso dell’Abruzzo

A metà marzo è stato approvato il raddoppio del centro commerciale Megalò di Chieti, sito lungo il fiume Pescara. È circondato da mura di acciaio e cemento con tanto di paratie mobili da chiudere in caso di esondazione. Una vicenda paradossale che racconta come il profitto venga messo al di sopra dell’ambiente, del suolo e di un clima che muta in modo prevedibile ma ignorato. L’intervento del prof. Paolo Pileri
Mi credereste se vi dicessi che esiste un centro commerciale costruito nel bel mezzo di un’ansa fluviale? Temo, purtroppo, di sì. Ma se vi dicessi che lo hanno circondato da mura di acciaio e cemento con tanto di paratie mobili da chiudere in caso di esondazione del fiume che gli scorre accanto, mi credereste ancora? Purtroppo, temo ancora di sì. Credo (e lo spero) che sia l’unico centro commerciale in Italia che ha per ingressi delle paratie idrauliche.
Ma la storia ha risvolti ancora più assurdi. Il 13 marzo scorso, dopo vari ricorsi e controricorsi, gli sviluppatori hanno ottenuto il via libera al raddoppio del centro commerciale. Sempre all’interno dell’ansa fluviale ma ancor più vicino al fiume. Così più clienti, più merci, più camion, più auto entreranno e usciranno da quelle paratie e assaporeranno il brivido di possibili alluvioni.
Già, perché nel 2015 il fiume Pescara è rovinosamente esondato, circostanza che non li ha convinti a fermare l’ampliamento della cattedrale al consumismo. È da non crederci. Per togliersi i dubbi, andate in rete e cercate Chieti; seguite il fiume Pescara fino a trovare il centro commerciale Megalò, un nome che risuona di megalomania che per Treccani è la “tendenza ad assumere atteggiamenti di grandiosità, a cimentarsi in imprese sproporzionate alle proprie forze, a presumere esageratamente delle proprie possibilità; è detta anche mania di grandezza, e può essere sintomo di disordine mentale (confinante con il delirio di grandezza), o soltanto un atteggiamento caratterizzato da presunzione e orgoglio eccessivi”. Un quadro perfino peggio dell’antropocentrismo.
C’è una logica per la quale si sia permessa una realizzazione del genere in un posto del genere e ora lo si raddoppi? Non ho risposte. Vent’anni fa i comitati locali cercarono saggiamente di fermarlo, denunciando pubblicamente l’inopportunità di quella realizzazione. Niente. Megalò si è così guadagnato l’iscrizione tra i dieci edifici più pericolosi d’Italia secondo il portale dei conflitti sociali nati tradendo la giustizia ambientale. Neanche questo ha sortito effetti. E così ci ritroviamo con l’approvazione di un ampliamento in piena zona di probabile esondazione, come accaduto nel 2015.

Non è un caso che la Regione Abruzzo stia realizzando, a spese pubbliche, vasche di laminazione per 54 milioni di euro (una cifra enorme appaltata nel 2023, destinata ad aumentare) anche nei Comuni di Cepagatti (86 ettari) e Chieti (29 ettari) che serviranno per ridurre il rischio a cui è esposto anche Megalò.
Fatico a trovare parole adatte per descrivere il controsenso di tutto ciò, dove la mano pubblica spende milioni di tutti noi per opere di difesa idraulica utili a mettere in sicurezza (anche) un ampliamento privato in area fluviale che non andrebbe permesso e per cui, alla prossima esondazione, si dovrà pure intervenire a spese pubbliche. Non c’è caso più contraddittorio di questo.
Una collezione completa di ingredienti di un modello di governo del territorio bollito e strabollito che si ostina a non rimuovere urgentemente dall’agenda ogni previsione urbanistica che consuma e impermeabilizza suolo.
Elenchiamo le voci indigeste di questo caso non sostenibile: consumo di suolo, edificazione in aree a pericolosità idraulica, spesa pubblica a tutela di una funzione privatissima, reiterazione del modello commerciale iperconsumistico, aumento del traffico di ogni tipo con conseguente aumento di emissioni inquinanti e climalteranti, esposizione di persone, natura e beni a possibili danni, prossimità a siti da bonificare (parti di quelle aree furono indicate come inquinate), valutazioni ambientali inefficaci, norme obsolete e inadeguate che la politica non cambia, etc..

Se ne potrebbe fare un laboratorio didattico per spiegare come non copiare questa urbanistica che è solo votata alla rendita e al massimo profitto accollando sul comparto pubblico le spese e i danni. A nulla sono servite le lezioni delle recenti esondazioni e alluvioni in Italia dove le nostre opere di difesa si sono rivelate insufficienti, indicandoci che la strada non è rimediare ma evitare.
Una lezione che avrebbe dovuto suggerire una revisione immediata delle nostre leggi. Ma nulla è cambiato perché le persone preposte a queste modifiche non sono cambiate, sono sempre le stesse e nulla riescono a imparare dai fatti di natura perché non hanno la cultura e la sensibilità (e quindi la coscienza) per riconoscere quel che accade e sono privi del coraggio politico che serve per generare discontinuità con la cattiva politica ambientale del passato.
Le nostre leggi e i nostri piani continuano a essere carta straccia davanti a un clima che è cambiato mandando in tilt tutte le previsioni fatte solo cinque anni fa. La rendita, il massimo profitto privato, il potere, l’ignoranza ecologica rimangono i capisaldi di un governo del territorio che fa acqua ovunque dimostra in pieno questo caso. Se non si capisce che i limiti che valevano qualche anno fa valgono zero oggi, ci si andrà a schiantare di nuovo. E sarà sempre più doloroso.
È impossibile non farsi cogliere dal dubbio che i ritardi nel cambiare norme e piani siano ormai parte di una vera e propria strategia politica che, di fatto, consente alle aziende di massimizzare i profitti. Un atteggiamento grave che, prendendo a prestito la riflessione di Adriano Zamperini, non fatico a chiamare ostruzionismo ecologico che sfocia nel negare il benessere e la giustizia sociale e che, pertanto, è qualificabile come una forma di violenza lenta e progressiva (Zamperini, 2023).
La mancanza di volontà politica nell’avviare, quantomeno, un processo per azzerare le previsioni urbanistiche si traduce, di fatto, nel continuo ossequio alla rendita e alla speculazione in barba a qualsiasi voce che denuncia la fragilità ecologica, ambientale e sociale dei nostri territori. In questo momento il buon senso suggerirebbe solo di arrendersi e congelare ogni concessione fintanto che non si sia aggiornato fino all’ultimo strumento decisionale. Invece, nulla di tutto ciò. E poi, fatemelo ripetere, tutto questo per cosa? Per l’ennesimo centro commerciale?
Da quando esistono i centri commerciali a cui si sono aggiunti la logistica e il commercio online, l’occupazione è crollata e si parla ormai di desertificazione commerciale delle piccole e medie città. Così denuncia l’ultimo report di Confcommercio (Roma, marzo 2025): un calo di oltre il 23% nelle attività di commercio al dettaglio con sede fissa. Un’emorragia gravissima. Da anni sappiamo che per ogni nuovo occupato nella logistica, nel commercio online e nei centri commerciali ne spariscono quattro o cinque nei negozi di dettaglio. E infatti a Chieti i negozi del centro nel giro di una dozzina d’anni hanno chiuso e oggi è un distillato di desolazione. Tutto questo meriterebbe una riflessione pubblica e un forte grido di allarme della classe politica. Invece tutti tacciono, tranne i comitati locali.
Ci rivedremo tra qualche mese o qualche anno, quando l’acqua avrà inondato Megalò-1 e Megalò-2 superando i muretti e le paratie come un ragazzino salta uno steccato, e sono sicuro che vedremo imprenditori che andranno a piangere dalla Pubblica amministrazione per ottenere ristori e aiuti, la stessa Pubblica amministrazione che avevano sfiduciato a suon di ricorsi per ottenere il via libera all’ampliamento nell’ansa fluviale.
Non ho spiegazioni da offrire, se non quelle amare di Antonio Cederna, scritte nel 1975 nel libro “La distruzione della natura in Italia”: “Le frane e le alluvioni che a intervalli regolari devastano l’ex giardino d’Europa hanno la loro causa prima nel disprezzo che dimostriamo per l’ambiente naturale, nelle insensate manomissioni cui abbiamo sottoposto il nostro territorio, nel rifiuto di conoscere il suolo in cui operiamo, nell’incapacità di esprimere una politica di piano che controlli trasformazioni e sviluppo, subordinandoli all’interesse pubblico”.
Probabilmente siamo ancora inzuppati di disprezzo per la natura e di rifiuto a conoscere suolo e natura. Molti si credono superuomini invincibili e lo fanno credere a tutti. La loro bibbia continua a essere intitolata “Crescita e consumo” e non vedono altro. Le nebbie dell’ignoranza ecologica continuano a generare le premesse al disastro e a confondere le idee alla gente. Culturalmente parlando, un centro commerciale in un’ansa fluviale, il cui ingresso avviene attraverso delle paratie stagne, che cosa volete che insegni alla gente se non che il consumismo vince sempre e su tutto? Che può fare piazza pulita di suolo, fiumi ed esondazioni?
L’esatto contrario di quel ripristino della natura chiesto dal regolamento Ue 2024/1991. Il resto è una sega che taglia il ramo su cui siamo seduti. Comunque noi continueremo a dare voce al suolo e alla natura. Non diciamo le cose perché sappiamo che ci ascolterete. Le diciamo e basta: perché è giusto dirle. Non siamo vittime di logiche performative per le quali ci si occupa solo di ciò che può avere successo. No, noi non facciamo finta di niente perché non ne vale la pena visto che chi decide non capisce. Noi non ci rassegniamo a stare zitti o a dire cose stupide. Noi applichiamo la legge dei sette minuti che ci insegna Stefano Massini: “siccome non mi capirebbero, non devo provarci? Anche se è giusto, devo far finta di niente perché non mi capirebbero?” (Massini, 2015).
E poi, a ben vedere, siamo e vogliamo rimanere molto generosi con i predatori di natura e i loro sodali: li pensiamo più intelligenti di quel che mostrano e quindi prima o poi capiranno o si faranno da parte.
Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “Dalla parte del suolo” (Laterza, 2024)
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