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Clima: il metano è l’elefante nella stanza. Ridurne le emissioni è decisivo

Diminuire le emissioni di metano prodotte dall’uomo del 45% entro il 2030 è possibile e “limiterebbe” il riscaldamento globale di 0,3°C entro il 2045, seguendo l’obiettivo dell’Accordo di Parigi. L’analisi della Climate and clean air coalition

Diminuire le emissioni di metano prodotte dall’uomo del 45% entro il 2030 non solo è possibile ma può avere un significativo impatto sul clima: in questo modo si “limiterebbe” il riscaldamento globale di 0,3°C entro il 2045, seguendo l’obiettivo dell’Accordo di Parigi che prevede di arginare l’incremento della temperatura media globale a 1,5°C. A evidenziarlo è il report “The Global Methane Assessment”, pubblicato il 6 maggio dalla Climate and clean air coalition (Ccac), partnership internazionale che opera per la protezione del clima e il miglioramento della qualità dell’aria guidata dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep).

Il metano (CH4), come si ricorda nel report, “è un ingrediente chiave nella formazione dell’ozono troposferico (smog), un potente agente climatico e un pericoloso inquinante atmosferico”. Si tratta infatti di un gas serra che nel riscaldamento dell’atmosfera risulta più potente dell’anidride carbonica, anche se è un inquinante climatico di breve durata (in inglese short lived climate pollutants). Contrariamente alla CO2, che resta in atmosfera per lunghissimo tempo, il metano avrebbe una capacità di deteriorarsi molto più rapida, fino a scomparire in gran parte dopo un decennio.

Dato che è solo apparentemente consolante, dal momento che la quantità di metano in atmosfera nel 2020, secondo la National oceanic and atmospheric administration (Noaa), ha registrato livelli record, a dispetto del rallentamento economico prodotto dalla pandemia. E dall’era pre-industriale, il metano risulta essere “colpevole” di ben il 30% del riscaldamento globale. Da qui l’urgenza di agire: secondo le stime elaborate dalla Climate and clean air coalition, una riduzione fino al 45% delle emissioni di metano avrebbe un forte impatto anche sulla salute umana, prevenendo 260mila morti premature ed evitando 775mila ricoveri ospedalieri legati all’asma. La riduzione delle emissioni di metano, inoltre, avrebbe un impatto anche sull’economia evitando, ad esempio, la perdita di 73 miliardi di ore di lavoro per il caldo eccessivo o 25 milioni di tonnellate di raccolto ogni anno.

Valutando i rapporti costi-benefici, Inger Andersen, direttrice esecutiva del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente non ha dubbi sugli effetti positivi del taglio del metano per società, economia e ambiente: “È la leva più potente che abbiamo per rallentare il cambiamento climatico nei prossimi 25 anni e completa gli sforzi necessari per ridurre le emissioni di anidride carbonica. Abbiamo bisogno della cooperazione internazionale per tagliare le emissioni di metano il più possibile in questo decennio”.

Perché, se non si cambierà rotta, le emissioni continueranno ad aumentare almeno fino al 2040. Secondo il rapporto, circa il 40% delle emissioni del metano proviene da fonti naturali, mentre il 60%, dalle cosiddette fonti antropiche come discariche o combustione di biomasse. Tre settori, in particolare, sono responsabili della quota più rilevante di emissioni di metano prodotte dall’uomo, su cui puntare lo sguardo e aumentare l’attenzione: i combustibili fossili (23% delle emissioni sono rappresentati da estrazione, lavorazione e distribuzione di petrolio e gas e 12% dall’estrazione del carbone); i rifiuti (20% delle emissioni sono rappresentate da discariche e acque reflue); il settore agricolo (32% delle emissioni sono rappresentate dal letame di bestiame e fermentazione enterica e l’8% di emissioni da coltivazione di riso).

Le soluzioni per contenere e ridurre le emissioni di metano, con la loro pericolosa capacità climalterante, sono già disponibili e, secondo le stime contenute nel rapporto della Climate and clean air coalition perseguire con decisione questa strada permetterebbe di ridurle del 30% già entro il 2030. Le misure a portata di mano si concentrano soprattutto “nel settore dei combustibili fossili -si legge nel rapporto- dove è relativamente facile individuare e riparare le perdite di metano e ridurne lo sfiato”.

Gli interventi devono riguardare anche il settore agricolo e la gestione dei rifiuti. E le aziende hanno tutto da guadagnare nel rimboccarsi le maniche e adottarle: la maggior parte delle misure mirate (60%) è a basso costo, e la metà di queste ha costi negativi. Secondo il rapporto, inoltre, esiste un potenziale di incidenza negli interventi per ridurre le emissioni di metano che varia con la geografia: in Europa e in India si concentrerebbe nella riduzione dei rifiuti; in Medio Oriente, Russia e Stati Uniti nel settore oil&gas; in Cina nella produzione di carbone mentre in Africa e America Latina nel bestiame.

Oltre alle misure mirate, il rapporto affronta anche la necessità di iniziative ulteriori che non si concentrino solo sul metano: riduzione degli sprechi alimentari, transizione alle energie rinnovabili, efficienza energetica e commerciale costituiscono infatti fattori che possono condurre ad una contrazione del 15% delle emissioni di metano entro il 2030.

Per Greenpeace è urgente che i governi inizino a fare i conti con “l’elefante nella stanza”. “Il gas fossile è composto per oltre l’80% da metano e non può essere trattato come un combustibile di transizione -commenta Georgia Whitaker, european lead campaigner di Greenpeace -. Il metano, che ha 84 volte più potenziale di riscaldamento globale in un periodo di 20 anni rispetto alla CO2, è la sporca realtà dietro il greenwashing dell’industria dei combustibili fossili. Per affrontare l’emergenza climatica e le crisi sanitarie che l’accompagnano, dobbiamo eliminare gradualmente tutti i sussidi ai combustibili fossili e garantire che le nostre economie si riprendano dalla pandemia di Covid-19 in modo da consentire una transizione energetica sicura, equa e pulita necessaria”.

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