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Opinioni

Resilienza pubblica, resilienza privata

Nel Nord Europa la transizione verso una società capace di adattarsi ai cambiamenti climatici è stata "innanzitutto e prima di tutto un progetto pubblico"; le istituzioni hanno dato il buon esempio, "buttando dalla finestra i vecchi modelli e lavorando alla costruzione di una percezione di sé credibile, attrattiva e ammirevole da parte dei privati". Un commento di Paolo Pileri, autore di "Che cosa c’è sotto"

L’articolo di Piero Pelizzaro sulle città resilienti è bello e allunga i nostri sguardi oltre gli orizzonti ristretti della retorica amministrativa e burocratica che spesso travolge le nostre città. In Nord Europa la resilienza non è rimasta una materia velleitaria da salotto, ma è diventata l’opzione prepotente sia per progettare la città e sia per offrire un nuovo modello sociale dell’abitare. In quattro e quattr’otto i cittadini olandesi, danesi, svedesi sono stati coinvolti e subito si sono fatti più attivi dei loro governanti. È questo vale tanto per la resilienza, quanto e di più per le altre sfide ecologiche che da anni hanno trovato cittadinanza certa in quelle città.
 
Del racconto di Pelizzaro vorrei evidenziare, però, il fatto che nel Nord Europa la transizione alla resilienza è stata innanzitutto e prima di tutto un progetto pubblico. Questo non va sottovalutato, ma anzi visto come un fattore di successo cruciale e culturale che oggi dà i suoi frutti. Ed è chiave per noi: gli Stati, le Regioni, le città hanno prima investito estesamente su se stesse, sui loro patrimoni, sugli edifici pubblici (scuole, uffici, servizi) e solo in seguito hanno dato vita a politiche che incentivassero i privati. Insomma, il soggetto pubblico ha fatto il soggetto pubblico, dando il buon esempio, buttando dalla finestra i vecchi modelli e lavorando alla costruzione di una percezione di sé credibile, attrattiva e ammirevole da parte dei privati. 
 
Dopodiché tocca ai privati e qui si aprono due vie. La prima, più scontata e usuale, è quella di dare incentivi ai privati per alimentare trasformazioni edilizie. Cosa possibile, ma che, imparando dal Nord Europa, va fatto dopo la “resilienza pubblica”. 
Il contrario non avrebbe generato, nemmeno lassù, il medesimo risultato, perché avrebbe inevitabilmente seguito la via degli interventi a spot, discontinui, difformi, non visibili, e quindi non sarebbe riuscito a generare quella massa di positività che oggi percepiamo passeggiando per Copenaghen e a cui gli interventi privati si sono aggiunti. 
 
La seconda, meno scontata e rarissima, è quella di iniziare a pensare che la resilienza sia anche un fatto privato, ovvero che i privati, senza ricorrere alla mano pubblica, siano in grado da soli di reagire alle turbolenze dei mercati (che peraltro il settore privato influenza) approntando quelle modifiche e quelle innovazioni che consentano loro di entrare nell’epoca successiva. Non vorrei che passasse il messaggio che la resilienza è un bel giochino ma pagato con i soldi pubblici a vantaggio dei privati, non è questo che vogliamo e non è questo che genera la cultura civile che vogliamo. 
Vorrei vedere una spinta privata all’autoresilienza, altrimenti è “vincere facile”. 
Accanto a questa conclusione, vale comunque la pena ribadire il ruolo fondamentale e civile del soggetto pubblico, che evidentemente in Italia deve riconquistarlo, perché nel frattempo è stato scientemente smontato e svilito da politiche privatistiche che hanno umiliato in particolare lo Stato, ed elevato agli altari il privato. 
Con questo non voglio dire che il soggetto pubblico sia eccellente a prescindere, perché così non è, ma neppure il soggetto privato lo è (peraltro la cronaca della corruzione ce lo ricorda ogni momento). Quest’ultimo ha inoltre lo svantaggio di essere composto da un numero infinito di attori che, se non orientati, finiscono per generare una disunità di effetti. 

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