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Opinioni

Referendum, da dove ripartire

"La coscienza ambientale è ancora debole, stregata da una cultura sempre più impoverita che ancora vede le sue ragioni come antitetiche a qualsiasi ipotesi di benessere sociale ed economico. Sappiamo che non è così ma dobbiamo lavorare per rigenerarla". Il commento di Paolo Pileri, professore associato di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano

Domenica non abbiamo scritto la data di inizio della nostra transizione ecologica “no oil”. Tante sono le lezioni che dobbiamo imparare da questo fallimento referendario. Ne dirò due.

La prima è innanzitutto non dimenticare. Se fra una settimana avremo dimenticato, la sconfitta referendaria avrà vinto due volte. Sta a noi convertire la batosta in nuova energia (rinnovabile) da usare per scovare tutte le ragioni del fallimento e sconfiggerle. Non basta solo rialzarsi dopo la caduta, ma occorre capire gli errori, buttarli via e innovare l’azione. La seconda cosa. Qualcuno dirà che l’esito referendario è il risultato del boicottaggio propagandato da parte di buona parte del governo, della cattiva informazione e del fatto che la macchina della comunicazione e della mobilitazione si è mossa tardi, troppo tardi. Tutto vero. E molto di tutto ciò ha distratto dall’obiettivo. Ma non è tutto qui. Quel che è accaduto ha trovato facile sponda, nelle settimane prima del referendum. Quel che è accaduto è figlio anche di una combinazione maligna dovuta al fatto che le ragioni del non si sono coagulate in un messaggio convincente e di interesse per non ‘ambientalisti’ (primo fatto) e al fatto che anche se ciò fosse accaduto, il destinatario (noi) non sarebbe stato il terreno fertile necessario al radicamento del messaggio (secondo fatto).

L’astensione non è solo il frutto di un’obbedienza al potere dei forti, ma ha probabilmente seguito il ventre molle di una ancora troppo debole coscienza ambientale, stregata da una cultura sempre più impoverita che ancora vede le ragioni legate alla tutela del Pianeta banalmente e pregiudizialmente come antitetiche a qualsiasi ipotesi di benessere sociale ed economico. Sappiamo che non è così, ma la questione è che tutti (o almeno il 50% + 1) devono saperlo e capirlo. Ed è su questo crinale che prende forma la lezione più importante e complessa di questa vicenda: se la cultura ambientale è (di nuovo) alla frutta, dobbiamo lavorare molto, ma molto di più, per rigenerarla sapendo bene che la costruzione passa dalla demolizione di molti preconcetti e luoghi comuni errati che in questi venti e più anni si sono "cementati" nelle nostre teste e che sopravvivono e vincono facendo rifornimento nell’ignoranza, nel populismo e nei luoghi comuni che ci rendono più plasmabili e convincibili. Davanti al bivio ambiente versus occupazione, un nodo cruciale, il pensiero ambientale non riesce ancora a proporre alternative possibili e credibili ai più, fatica a convincere e, spesso, non anticipa, ma rincorre l’avversario. Ma occasioni come questa sono sempre un punto di condensazione da non perdere.

15 milioni di cittadini sono tanti e sono il nocciolo consapevole da cui occorre ripartire. Le forze intellettuali e sociali che proprio in questo referendum si sono esposte e hanno dato prova di esserci e di saperla lunga non devono disperdersi. Più che aprire un tavolo, un forum, un’assemblea con cui capire come stare assieme occorre al più presto immaginare come impostare una nuova narrazione ambientale decisamente diversa da ieri, perché quella non ha funzionato. Occorre trovare modo di spiegare che con ambiente e sostenibilità si lavora, si fa società, si cresce, si mitigano le disuguaglianze e si migliora. Ovviamente occorre investire molto molto di più in cultura ambientale.

Siamo indietro e dobbiamo recuperare, non mollare. È chiaro che gli interessi finanziari ed economici hanno più mezzi per far sentire la loro voce di sirene, e la politica spesso ci va dietro, ma questo non è un buon motivo per rinunciare. Se questo è il risultato, vuol dire che abbiamo sbagliato qualcosa o che siamo timidi o diamo un’immagine pessimista e lamentosa o non riusciamo a comunicare le ragioni (belle) per cui la prossima società non può che essere votata alla sostenibilità. Ma questo -che è chiaro a molti- è ancora una novità per i più e allora occorre investire per formare un humus culturale indelebile, un basso continuo inestirpabile, altrimenti il terreno su cui si depositano le idee, si secca al punto che la prima brezza se lo porta via e le prossime idee avranno ancor meno possibilità di radicarsi, trovando ancor meno humus. Impariamo a far migliore uso dell’istituto della cooperazione delle idee, sosteniamoci e dedichiamoci a trovare una narrazione non solo alternativa, ma chiara, convincente e possibile. Chiediamo spazio sui giornali, nei dibattiti, in TV e impegniamoci ancor di più a svelare qual è la realtà. Non dimentichiamoci che le questioni ambientali hanno anche la grande forza di poter poggiare sulle spalle di un grande gigante: il fatto scientifico.

Pensate ai cambiamenti climatici.
La "battaglia di Parigi", quella della Conferenza ONU sul clima che si è tenuta alla fine del 2015, è stata vinta a colpi di dati scientifici che hanno messo spalle al muro anche i più riottosi. Dobbiamo uscire dall’ambiguità delle opinioni e sfoderare la forza del pragmatismo basato su cifre, prove, casi, esempi. Usiamolo e, mi rivolgo agli studiosi, impariamo a divulgare di più l’approccio e le informazioni scientifiche perché anche questo aiuta la formazione di una consapevolezza duratura che oggi nei cittadini è ancora troppo debole e liquida, nonostante siano già 15 milioni.
  
* Paolo Pileri, editorialista di Ae, è professore associato di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “Che cosa c’è sotto” (Altreconomia, sec. ed. 2016)

 
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