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Cultura e scienza / Intervista

Forme e maschere del populismo di oggi. Intervista a Marco Revelli

© Darren Halstead - Unsplash

Quando la democrazia funziona bene, il populismo si riduce ai minimi termini. “Ma quando non riesce più a rappresentare parti consistenti del demos -spiega il politologo-, il populus si sposta, si radicalizza, esprime sentimenti di rabbia, risentimento, rancore. È stata malattia infantile della democrazia (ad esempio negli Stati Uniti dell’Ottocento), è malattia senile oggi”

“Il populismo ha un rapporto di stretta complementarietà con la democrazia, le due parole fanno riferimento alla stessa entità,  il latino  populus e il greco demos. Quando la democrazia funziona bene, il populismo si riduce ai minimi termini; ma quando non riesce più a rappresentare parti consistenti del demos, il populus si sposta, si radicalizza, esprime sentimenti di rabbia, risentimento, rancore. È stata malattia infantile della democrazia (ad esempio negli Stati Uniti dell’Ottocento), è malattia senile oggi”. Sociologo, politologo, storico, Marco Revelli insegna all’Università del Piemonte Orientale e ha approfondito il fenomeno del populismo. L’ultima metamorfosi, spiega ad Altreconomia, è quella del “turbopopulismo”.

Professor Revelli, con il termine “populismo” si sono indicati nel tempo fenomeni politici eterogenei; lei lo definisce una catch-all word. Una definizione teorica è possibile?
MR
La politologia ha lavorato molto sul termine e sul fenomeno. Si possono identificare tre caratteristiche minime della “sindrome  populista”. La prima è una concezione del popolo come a whole, un tutto, con una linea di demarcazione orizzontale. Sotto, il popolo è visto come un insieme indistinto: le differenze culturali e sociali sono secondarie rispetto alla linea principale di conflitto, che vede questa entità  pura e virtuosa in opposizione a una élite, una minoranza viziosa e usurpatrice. Un popolo non definito dalla propria appartenenza partitico-politica, come nelle democrazie rappresentative novecentesche (in cui la volontà popolare si esprimeva attraverso i corpi politici organizzati, i partiti) ma attraverso l’identificazione con un leader -qualcosa che abbiamo già visto con il Duce -con un elemento di personalizzazione carismatica e di disintermediazione. Il meccanismo per operare questa reazione chimica, per proporre sia l’immagine dell’omogeneità del popolo sia l’identificazione con il capo è la figura del capro espiatorio: può essere in alto -i banchieri, i finanzieri, Soros, la congiura giudaico-massonica- o più spesso in basso -il sottouomo, il migrante, a suo tempo l’ebreo, il nomade, lo zingaro, il clochard– e permette, peraltro, a tutti gli altri di sentirsi superiori a qualcuno.

Il populismo oggi sembra emergere con prepotenza ovunque, da Trump a Salvini, dall’Ungheria al Regno Unito, legato a una crisi di rappresentanza. Fattore determinante, il declassamento, e la conseguente rabbia, del ceto medio ma anche di quello operaio.
MR Una parte consistente del populus era stata il baricentro, il fattore di stabilità delle democrazie del secondo Novecento. Il ceto medio era stato gonfiato da parti consistenti delle classi lavoratrici che l’ascensore sociale aveva fatto salire. Da un certo punto in poi quelle classi si sono sentite marginalizzate, non si sono più riconosciute nei comportamenti delle classi politiche, non più identificate come propri rappresentanti ma come élite con interessi diversi dai propri, che in molti casi tradivano il loro mandato.
Il modello unico che si stava affermando,  quello neoliberista,  teorizzava la rottura delle solidarietà sociali. Un modello esasperatamente individualistico e competitivo, fatto in parte proprio dalle vecchie classi dirigenti socialiste e socialdemocratiche che si sono identificate nella globalizzazione, senza capire che ha i suoi winners e i suoi losers. I loro sostenitori rientravano in gran parte nei perdenti e dopo la terribile crisi del 2007-2008 hanno iniziato a esprimere non solo un voto di protesta ma un voto di vendetta, come lo abbiamo definito  nell’ultimo libro. Negli USA, ad esempio, negli stati della Rust Belt c’era il cuore della old working class americana: i siderurgici, i minatori, che avevano votato nel tempo Roosevelt, Kennedy, Clinton, Obama hanno votato in massa Trump, l’antitesi di un ceto politico che era andato altrove, che si identificava con i vincenti mentre loro erano i perdenti. Trump era rappresentato dai media sporco, brutto e cattivo esattamente come i media rappresentavano loro, i minatori del Kentucky.

Un voto di vendetta, scrive, che esprime in diversi Paesi “la fibrillazione del margine”: “le periferie, i marginali, il ceto medio impoverito, tutti gli esclusi”. Il 2016 è un anno di svolta: l’elezione di Donald Trump e la Brexit. Arriviamo così al cosidetto “turbopopulismo”, che è un “sinomimo di sovranismo, identitarismo, neo-nazionalismo, tendenzialmente autoritario e suprematista”.
MR Il “turbopopulismo” è l’ultima metamorfosi del populismo che è un ectoplasma, una galassia dai confini  generici, in continuo mutamento. Fino a qualche anno fa, il populismo ha svolto anche un ruolo positivo, un campanello di allarme di quello che non funzionava nella democrazia: è stato definito  “l’invitato indesiderato” come quello che compare in un party elegante, beve troppo, è sboccato, ma ogni tanto si lascia scappare qualche verità. Poi ha accelerato la sua marcia di conquista. All’inizio era definito “antidemocrazia”, come se fosse un fenomeno disgustoso, esterno alla politica, ma poi si è affermato come una forma prevalente della politica.
Negli ultimi tempi, dal 2016 in poi, ha rotto l’ambivalenza destra/sinistra. Il “turbopopulismo” è una forma della destra radicale, guidato e tradotto in discorso politico dalle “élite negative”, che fanno l’opposto di quello che dovrebbe fare “un’élite positiva”, vale a dire lavorare per la coesione sociale, sulla base di valori come equità, giustizia sociale, tolleranza, serietà, rispetto reciproco, riconoscimento dell’altro. Le élite negative costruiscono le proprie fortune alimentando le “passioni tristi”, i vari linguaggi dell’odio, del rancore, dell’ostilità, della chiusura nei confronti dell’altro, dell’affermazione di primati presunti e falsi (il grido “prima gli italiani”).

Nel suo libro “Turbopopulismo” (2019, scritto con Luca Telese) parla della pietas come principio fondante del legame sociale. Scrive che, quando si perde la pietas, un paese è sull’orlo dell’abisso.
MR L’odio è verso lo straniero, ma anche  verso chiunque sia debole, il clochard, il questuante, quello che gli amministratori della Lega considerano un disturbo del decoro urbano. È il tratto più inquietante di queste “passioni tristi” che sono il carburante del turbopopulismo. La pietas è più della pietà, è la capacità di immedesimarsi nell’altro, di soffrire insieme. Non cancellare o irridere la sofferenza come se fosse in concorrenza con la nostra, una minaccia alle nostre condizioni. Questo fa il populismo, il rovesciamento della relazione vittimaria: la vittima sono sempre io. È vero, qualcosa ho perduto: un po’ di status, di reddito, di sicurezza del futuro, un posto di lavoro, la sicurezza della pensione. Allora, le altre vittime diventano i miei carnefici. Chi si piega sul dolore degli altri mi toglie qualcosa.
La parola buonismo è diventata un insulto -anche nel fascismo chi soffriva per la persecuzione degli ebrei veniva chiamato “pietista”. Questa operazione non fa solo perdere umanità: ci prepara alla rovina.

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