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Esteri / Inchiesta

Libia: oltre i migranti, il petrolio. Il ruolo strategico di Eni

Varo del jacket piattaforma Sabratha - © enistoria

Mentre litigano sugli sbarchi, i capi di Stato sono unanimi nel tutelare le riserve “oil & gas” del Paese nordafricano. La multinazionale italiana, intanto, ha investito significativamente sul terreno, che già oggi le garantisce oltre il 20% sul totale della produzione d’idrocarburi. Sullo sfondo, il caso delle milizie del trafficante Al-Dabbashi

Divisi sui migranti, sensibili al petrolio. Ventiquattro ore prima dell’avvio del Consiglio europeo di Bruxelles sui migranti (questione Libia inclusa), i governi di Francia, Italia e Regno Unito -insieme agli Stati Uniti- hanno condiviso una dichiarazione congiunta sulla gestione delle risorse petrolifere del Paese che si affaccia sul Mediterraneo.

Al di là delle divisioni su sbarchi e accoglienza, i quattro si sono detti “profondamente preoccupati” per il fatto che il controllo dei giacimenti e degli impianti di Ras Lanuf ed Es Sider, dopo i combattimenti delle ultime settimane e l’attacco delle forze di Ibrahim Jadhran, possa esser trasferito a un soggetto diverso dalla National Oil Corporation (NCO), l’unica riconosciuta ufficialmente dai Paesi e la sola legittimata dal governo di unità nazionale (GNA) che fa capo a Fayez al-Sarraj.

“Qualsiasi tentativo di aggirare il regime di sanzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nei confronti della Libia -recita lo statement- causerà un grave danno all’economia libica, aggraverà la sua crisi umanitaria e comprometterà la sua stabilità”. Con una richiesta rivolta a “tutti gli attori armati” di cessare le ostilità e di “ritirarsi immediatamente dagli impianti petroliferi senza condizioni prima che si verifichino ulteriori danni”. E un monito: “La comunità internazionale chiederà conto a coloro che minano la pace, la sicurezza e la stabilità della Libia”.

A stretto giro, NOC ha salutato con “gratitudine” l’iniziativa dei quattro -e del Segretario generale dell’Onu- invitando la Libyan National Army (LNA) guidata da Khalifa Haftar a “riprendere il controllo operativo” dei terminali petroliferi.

L’interesse occidentale per gli idrocarburi libici è anche un interesse italiano. Tra i principali interlocutori della National Oil Corporation, infatti, c’è Eni. Il cuore produttivo in Africa settentrionale della multinazionale controllata dallo Stato italiano (ministero dell’Economia e Cassa depositi e prestiti detengono una partecipazione del 30,1%) batte in Libia: nel 2017, oltre il 20% della produzione d’idrocarburi è arrivata da lì (384mila barili equivalenti al giorno su un totale mondiale di 1,8 milioni).

È un peso enorme per il cane a sei zampe che nel 2017 ha realizzato ricavi per oltre 66 miliardi di euro. Un terzo della produzione di gas naturale è libica (46 milioni di metri cubi al giorno su 149 milioni), il 10% per quanto riguarda invece “petrolio e condensati” (87mila barili al giorno su 852mila). Produzione ma anche estensione. L’attività infatti è condotta nell’offshore mediterraneo di fronte a Tripoli e nel deserto libico per una superficie complessiva sviluppata e non sviluppata di 26.636 chilometri quadrati. 13.294 in quota Eni. Di questi, la stragrande maggioranza non è ancora sviluppata (12.336 chilometri quadrati), mentre quella che lo è già -e cioè che si riferisce a “titoli per i quali almeno una porzione dell’area è in produzione o contiene riserve certe sviluppate” (Eni)- ammonta a circa 960 chilometri quadrati. I contratti di “Exploration and Production Sharing” (EPSA) che regolano l’attività del colosso hanno durata fino al 2042 (per le produzioni a olio) e al 2047 (per quelle a gas).

Gli impianti Eni in Libia – Fact Book 2017, Eni Spa

Il vettore con il quale Eni è presente in Libia è la “Mellitah Oil & Gas”, suddivisa a metà tra la multinazionale e la National Oil Corporation. È tra le più grandi di tutto il Paese, gestisce impianti “onshore” distribuiti sul territorio e punti “offshore” articolati su piattaforme e serbatoi galleggianti. Parte del gas naturale trasformato dal complesso di Mellitah (80 chilometri a Ovest di Tripoli, per il quale Eni nel 2017 ha versato alla National Oil Corporation di Tripoli 1,6 miliardi di euro tra imposte e royalty) raggiunge l’Italia (Gela) attraverso il gasdotto “GreenStream” (oltre 520 chilometri). Eni però non batte bandiera italiana. Il 50% di “GreenStream BV” -gestore del gasdotto-, fa capo infatti alla “Eni North Africa BV”, a sua volta posseduta dalla “Eni International BV”. Tutte quante hanno sede legale ad Amsterdam, in un Paese a fiscalità agevolata. L’identico schema olandese si ripete per la “Mellitah Oil & Gas BV” (MOG), che a Tripoli ha la sede operativa ma non quella legale (Amsterdam).

Il gasdotto GreenStream che dalla Libia raggiunge l’Italia – Mellitah Oil & Gas BV

E proprio a Tripoli, il 7 giugno di quest’anno, è arrivata la notizia delle sanzioni deliberate dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite contro sei presunti trafficanti di esseri umani e contrabbandieri operanti in Libia. Decisione che è stata “accolta con favore” due giorni dopo dal presidente della NOC, Mustafa Sanalla, che ha invitato la comunità internazionale a “catturare le bande criminali” che sottraggono petrolio, come avvenuto a detta di Sanalla nel caso del “fuel smuggler” Mohamed Kashlaf e della sua occupazione della raffineria di Zawiya.

L’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, con il capo del governo di unità nazionale in Libia, Fayez al-Sarraj

Tra i sei risulta anche Ahmad Oumar al-Dabbashi, detto “Al Ammu”, comandante della milizia/brigata “Anas al-Dabbashi” e ritenuto dalle Nazioni Unite tra i principali leader delle “attività illecite collegate al traffico dei migranti” e per questo destinatario di misure quali il “travel ban” o l'”asset freeze”. A differenza di Kashlaf, la NOC non l’ha citato nella sua dichiarazione post sanzioni. Secondo diverse inchieste giornalistiche (in particolare questa e questa), però, Al-Dabbashi e i suoi uomini si sarebbero occupati in passato proprio della sicurezza del compound di Mellitah, traendo cospicui profitti da quell’attività.

Interpellata sul punto anche dopo le sanzioni dell’Onu, Eni, che non ha commentato le misure prese contro “Al Ammu”, ha ribadito che le “attività di sicurezza del complesso di Mellitah sono gestite dalla società Mellitah Oil & Gas e dalla società di Stato libica NOC. Dalle verifiche da noi effettuate, risulta che tali forze di sicurezza sono formate sia da guardie dipendenti dalla stessa società MOG, sia da forze appartenenti alle Forze di Sicurezza Nazionali direttamente gestite dal governo libico”. Tra queste c’è mai stata la squadra di Al-Dabbashi? “Dalle verifiche fatte, non risulta nulla di tutto ciò”, replica Eni, che in forza di una “separazione dei compiti tra le società”, “si occupa di quelle attività tecniche e operative che consentono agli impianti di funzionare”. A NOC toccherebbe invece la sicurezza, “per ovvie ragioni di facilità e conoscenza del territorio”.

Al-Dabbashi intanto è ancora attivo nel traffico di esseri umani. Lo dimostra una relazione messa a punto a metà marzo di quest’anno da una task force presso il ministero dell’Interno, istituita nell’ambito dell’operazione “Themis 2018”. È relativa allo sbarco di 281 migranti salvati dalle Ong in mare, caricati sulla nave Aquarius e giunti al porto di Augusta il 12 marzo scorso. Al loro arrivo, i naufraghi vengono immediatamente “intervistati” dai membri della task force (un sostituto commissario, un ispettore capo e un sovrintendente capo) e dai “debriefer expert” dell’Agenzia Frontex. L’obiettivo dichiarato è quello di ricostruire la rete dei trafficanti. La presunta alleanza tra contrabbandieri e operatori umanitari è una bufala, tanto da “non trovare riscontri” nemmeno nella relazione della task force. I migranti, semmai, fanno i nomi dei “facilitatori” del loro viaggio infernale. Tra i nove c’è anche quello di Ahmad al-Dabbashi, definito dagli autori della relazione come un “cittadino libico, contrabbandiere di migranti originario di Sabratah, che attualmente vive vicino a Zawiya e pianifica il ritorno a Sabratah”. Con tanto di nota a piè di pagina che rimanda al profilo Facebook della brigata. L’Italia, anche senza le formali sanzioni Onu che arriveranno due mesi e mezzo dopo, è perfettamente a conoscenza dello spessore di “Al Ammu”.


Un estratto della relazione messa a punto a metà marzo di quest’anno da una task force presso il ministero dell’Interno, istituita nell’ambito dell’operazione “Themis 2018”

Eni non vuole essere della partita. Quando si tratta di Mellitah e collaborazione con la comunità locale, rimanda piuttosto al “Memorandum of Understanding” sottoscritto nel marzo 2017 per “la realizzazione di interventi nell’ambito della salute ed educazione nelle comunità locali prossime all’area operativa dell’impianto”. I programmi di intervento annunciati erano due: la “ristrutturazione della clinica presso l’area di Jalo” e la “realizzazione di una pipeline per l’impianto di desalinizzazione per fornire acqua potabile alle comunità dell’area”.

Per quanto riguarda l’impianto di desalinizzazione di Zuwara, Eni fa sapere che “il tubo di linea è già stato acquisito, mentre la gara per la costruzione è ancora in corso”. La clinica d’emergenza di Jalo, invece, costruita nel 2009 e consegnata al ministero della Salute nel 2013, “non è mai diventata operativa” (Eni). Che prosegue: “Nel terzo trimestre 2018 è in corso la gara per l’affidamento delle attività di approvvigionamento e il relativo contratto, che prevede anche la formazione del personale medico locale”. Siamo ancora indietro.

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