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Per sanità e istruzione non è possibile derogare alle ferree regole europee. Per le armi sì

Il piano “ReArm Europe” dice che nessuna delle urgenze sociali ha un valore paragonabile a quello dell’industria bellica, tanto da consentire ai singoli Stati dell’Ue non solo di tenere fuori dal Patto di stabilità le spese militari ma di poter negoziare persino le somme attribuite per le politiche di Coesione o per altre finalità purché simili rinegoziazioni finiscano in armi. Una visione assurda e distruttiva. L’analisi di Alessandro Volpi
Il piano europeo “ReArm Europe” presentato dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen, sul quale è stata trovata una sostanziale condivisione da parte degli Stati membri, è ancorato a una prospettiva totalmente bellicista.
Il piano infatti parte dalla prospettiva che l’Europa stia per entrare in una sorta di Terza guerra mondiale contro la Russia e contro chi sosterrà Mosca, senza poter disporre di alcun aiuto americano; una costruzione di fantapolitica a cui mancano troppi elementi di realtà. Ma la politica del riarmo ha bisogno di una retorica della difesa da una possibile invasione russa dopo che gli Stati Uniti hanno sospeso gli aiuti all’Ucraina e implica un vero e proprio cambiamento di paradigma per cui gli europei devono destinare la gran parte della propria spesa pubblica e dei capitali privati al riarmo.
Le manifestazioni per la pace diventano rapidamente l’espressione di una visione dove essere armati diviene un obbligo, una sorta di dovere morale, e l’unico vero deterrente contro la guerra, secondo un modello storicamente devastante che ha generato soltanto drammatici conflitti.
La Russia è un nemico irriducibile con cui non si può negoziare se non dopo la sua sconfitta e dunque ogni spazio di mediazione, di confronto, di dialettica sparisce, sostituito dalla narrazione belluina del nemico. Il pragmatismo dei tanti “pacifisti armati” pare dimenticare del tutto che le guerre si evitano prima di tutto rimuovendo lo “spirito della guerra” come dominus delle relazioni internazionali.
Il paradosso però è che mentre ci armiamo dichiariamo esplicitamente di non voler mandare un solo soldato sul fronte, coltivando un fariseismo che è ormai il tratto tipico della fase attuale. Cosa che induce la Commissione europea a rimuovere i vincoli del Patto di stabilità soltanto per il riarmo, proprio perché si tratta di un imperativo categorico, ormai di matrice morale: se gli Stati aumenteranno almeno dell’1,5% del loro Pil la spesa per il riarmo, potranno farlo senza che quella spesa rientri nei vincoli del Patto.
In altre parole, non è possibile derogare alle ferree regole europee per la sanità, ormai in profonda crisi, per la spesa sociale, legata al crescente impoverimento, per l’istruzione, per la transizione ecologica, per la tutela del territorio, ma per le armi sì. Alla luce del dovere morale di riarmarsi diventa superfluo il fatto che l’Europa abbia bisogno di maggiori risorse pubbliche per fronteggiare l’invecchiamento della popolazione, per l’istruzione di milioni di giovani legati ai grandi spostamenti di popolazione, alla trasformazione produttiva in termini sostenibili, alle profonde disuguaglianze.
Nessuna di queste esigenze strutturali ha un valore paragonabile a quello delle armi, tanto da consentire ai singoli Stati membri non solo di tenere fuori dal Patto le spese militari ma di poter negoziare persino le somme attribuite per le politiche di Coesione o per altre finalità purché simili rinegoziazioni finiscano in armi.
Nell’orizzonte del “ReArm Europe” compare, esplicito, l’invito a creare un mercato unico dei capitali e a favorire strategie di finanziarizzazione verso il settore delle armi, anche attraverso la Banca europea degli investimenti, così da facilitare la piena declinazione del capitalismo in termini bellici.
Il Piano è l’indicazione per i grandi fondi Usa -BlackRock, Vanguard e State Street- per quelli europei, tipo Amundi, e per le grandi banche di comprare i titoli dell’industria delle armi -peraltro ben specificata dal documento “difesa aerea e missilistica, sistemi di artiglieria, missili e munizioni, droni e sistemi anti-drone”- mettendo in secondo piano le altre forme di investimento, con la conseguenza di generare una vera e propria, colossale bolla speculativa.
Così le “manifestazioni pro-Europa” un risultato immediato lo stanno ottenendo ed è l’impennata dei titoli azionari delle principali imprese di armi europee in grado di registrare record e di riorganizzarsi rapidamente. Non è un caso che la Borsa tedesca sia trascinata da Rheinmetall, quella italiana da Leonardo, quella francese da Thales e quella inglese da Bae Systems.
Peraltro Rheinmetall e Leonardo hanno annunciato una joint venture e la loro forte crescita azionaria trascina con sé quella delle banche come Unicredit, che hanno legami stretti proprio con quel tipo di industrie. A rinfocolare simili aspettative si aggiunge al “ReArm Europe” la decisione della Commissione di indirizzare i fondi di vari programmi europei alla corsa agli armamenti mettendo insieme subito una dote di 144 miliardi di euro. A ciò possono contribuire le politiche della Bce che si è dichiaratamente espressa a favore del Piano di riarmo, con riduzione dei tassi al 2,65% e soprattutto con la chiara indicazione che il Pil, ora stimato per il 2025 a meno dell’1%, possa crescere solo con la riconversione armata. L’Europa è in guerra e vuole un’economia di guerra che distruggerà il sistema produttivo, violenterà i sistemi di welfare e coltiverà odi nazionalistici capaci di distruggere il senso di convivenza collettiva.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento. Il suo ultimo libro è “Nelle mani dei fondi” (Altreconomia, 2024)
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